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1966: l’Italia delle belle gioie
La storia dei Mondiali di calcio – 15
di Mimmo Carratelli
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L’Inghilterra, ormai uscita dal suo isolamento, organizzò l’ottavo campionato del mondo nel 1966. Sui suoi magnifici campi, autentici tappeti verdi, si disse sicura di vincere come proclamò alla vigilia Alf Ramsey, responsabile della nazionale con le maglie bianche. Poteva contare su una squadra veramente forte.
Sedici nazionali parteciparono alla fase finale, presenti Brasile, Italia e Uruguay, tutti e tre bicampioni del mondo, la Spagna di Suarez e Gento, la Germania del nuovo talento Franz Beckenbauer, l’Urss di Jascin, l’Ungheria degli assi Albert e Bene, per la prima volta il Portogallo delle pantere nere mozambicane tra cui il fuoriclasse Eusebio, più la novità della Corea del nord senza bandiera e rappresentanza ufficiale perché la Gran Bretagna non riconosceva la Repubblica popolare coreana. E, inoltre, Argentina, Bulgaria, Cile, Francia, Messico, Svizzera, e l’Inghilterra padrona di casa.
Il campionato prese il via alle 17 dell’11 luglio nell’imperiale Stadio di Wembley, fuori Londra, con una suggestiva cerimonia d’apertura alla presenza della regina Elisabetta e con la banda delle Horse Guards che eseguì “When the saints go marching in”. Subito dopo entrarono in campo Inghilterra e Uruguay (0-0).
L’Italia, destinata a giocare le prime partite nel nord dell’Inghilterra, atterrò a Newcastle e si sistemò alla Scuola di agricoltura di Durham in un paesaggio freddo e malinconico. Fu una spedizione massiccia con 110 bagagli per via aerea che, a causa dell’eccessivo peso, fecero ritardare il volo che portò gli azzurri in Inghilterra, più undici bauli che giunsero per ferrovia e venti film western per allietare il soggiorno della nazionale. Ai 22 convocati furono aggregati Bertini, Riva e il napoletano Juliano come “ospiti”.
Era una nazionale frastornata e divisa dalla “guerra tattica” dibattuta aspramente sui giornali tra i sostenitori del “catenaccio” e del blocco difensivo dell’Inter e i paladini del bel gioco che facevano riferimento ai calciatori del Milan e del Bologna. I filo-interisti erano soprattutto anti-Rivera, il milanista che giocava divinamente e aveva preteso, e ottenuto, che dalla nazionale venisse escluso il “libero” Picchi dell’Inter. “Resta alle spalle della difesa, non partecipa alla manovra e noi così giochiamo in dieci” disse Rivera. Il commissario tecnico Edmondo Fabbri gli dette ragione e convocò i più manovrieri Salvadore della Juventus e Janich del Bologna.
Edmondo Fabbri, dopo le confuse commissioni tecniche, era l’unico responsabile della nazionale, stipendiato dalla Federcalcio a un milione e mezzo di lire al mese più i premi. Dell’Inter salvò i difensori Burgnich e Facchetti e, per il resto, costruì la nazionale del bel gioco imperniata su Rivera, Bulgarelli e Fogli. Venne accusato di odiare l’Inter perché, sul punto di essere ingaggiato dal club milanese, gli era stato preferito Helenio Herrera che il presidente Angelo Moratti chiamò alla guida della squadra nerazzurra offrendo a Fabbri, stipendiandolo, l’alternativa (rifiutata) di allenare il Verona.
Fabbri inventò gli “stages” a Coverciano, il centro tecnico federale. Era di carattere labile, ombroso. Si inalberava per ogni contrattempo, aveva un rapporto difficile con la stampa, era giovane, 40 anni, e aveva una sola esperienza da allenatore, alla guida del Mantova che aveva portato dalla serie C alla serie A, il prodigio che gli valse la responsabilità della nazionale. Confessò: “Non conosco il calcio estero? Lo conoscerò. Il problema è come fare a governare giocatori che sono più popolari di me”.
La nazionale del bel gioco trionfò a suon di gol negli anni che precedettero il Mondiale. La squadra di Fabbri colse 16 vittorie su 26 partite. Andarono ripetutamente a segno Mazzola (13 gol), Rivera (9), Pascutti (8), Bulgarelli (5). Nel girone europeo della qualificazione mondiale, l’Italia strapazzò la Polonia e la Finlandia, battute entrambe 6-1, e si vendicò a Napoli con un perentorio 3-0 della sconfitta patita a Glasgow (0-1) contro la Scozia.
Tutto sembrava andare a gonfie vele, ma i paladini del gioco all’italiana, difesa e contropiede, non erano soddisfatti. Sminuirono il valore delle vittorie, soprattutto quelle ottenute in gare amichevoli (l’Italia di Fabbri battè 3-0 a Milano il Brasile di Pelè). Gufarono contro Mondino, il nomignolo di Fabbri, che era piccolo, stempiato e portava gli occhiali, e si dissero sicuri che al Mondiale sarebbe stata un’altra musica.
In Inghilterra giocarono Albertosi (Fiorentina); Burgnich, Facchetti, Mazzola, Landini, Guarneri (Inter); Rosato e Meroni (Torino); Salvadore e Leoncini (Juve); Lodetti e Rivera (Milan); Barison (Roma); Perani, Bulgarelli, Pascutti, Janich, Fogli (Bologna).