Cultura
Pomeriggio di luglio
di Luigi Alviggi
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Il lungo racconto “Pomeriggio di luglio“ (Edizioni Guida 2003, pagg. 150 - € 9,80) del noto giornalista e presentatore televisivo Antonio Lubrano è il languido amarcord del felice tempo liceale di un uomo ormai avanti negli anni, che pizzica con sentimento e nostalgia le corde della lontana giovinezza.
L’autore è stato appena insignito del Premio Letterario Cimitile (IX Edizione) per tale opera.
La realtà napoletana circostante è quella, accorata e sofferta, dell’immediato ultimo dopoguerra, ma le estese macerie poco influenzano i pensieri arditi e la voglia di rifare il mondo che agitano i compagni della classe 3° sezione A dell’emerito Liceo Giambattista Vico. Eppure ogni ricordanza, oltre il piacere, reca seco la paura, soffusa eppur vivida, esile eppur permeante: “la paura di perdere la tenerezza del ricordo.” Ciò nonostante, l’autore, isolano d.o.c.g., si perde lungo il sottile filo della memoria: “A Procida i pomeriggi di luglio sono struggenti… restano a impigrire nell’aria… si attardano a girare intorno ai sentimenti e alle cose, quasi un corteggiamento agli uni e alle altre, un desiderio ineffabile di sopravvivere alla loro natura evanescente, con un movimento analogo alla luce di quest’ora, che prova a dissuadere il suo destino segnato dalla rotazione della terra. Una malia lunga, ondeggiante, dolorosa ed esaltante insieme.”
Nei sette giovani protagonisti - Fulvio, il narratore, aspirante giornalista; Andrea, mancato gesuita, molto più vecchio degli altri; Enrico, pittore, corpulento e patriarcale; Fabrizio, rampollo di industriale, novello Romeo; Federico, sofista, con lieve atrofia poliomielitica; Francesco, l’ingenuo, pragmatico e politicizzato; Gianluca, iconoclasta, schiavo della logica dei “renare” (quanto mai attuale): “solo col denaro si vince la battaglia della vita” - la diversità di estrazione sociale e di formazione familiare accende i contrasti più animosi. Sono loro, con la testa ribollente di fantastiche idee, ad affacciarsi ai primi turbamenti con l’altro sesso e, ad un tempo, massimamente proni alla tentazione, connaturata all’età, di discutere sulle fondamenta del creato.
Del resto, per i ragazzi degli anni ’50, ’60, ’70, di sovente accomunati dalla incerta fortuna con le fanciulle e nelle scarse distrazioni giovanili di allora, nulla poteva sopravanzare il piacere della dialettica anche estrema e, non di rado, fine a se stessa. L’esplosione del ’68 – un pò tardiva in Italia – rimescolando le carte, avrebbe reso più facile transitare dal pensiero all’azione, con le tristi conseguenze a venire a tutti note.
Nel fiume di parole che alleggerisce il sacrificio dello studio, che favorisce le scommesse sul domani, che attenua le inevitabili delusioni incontrate lungo il percorso, che indora, insomma, ogni difficoltà di vita, trova spazio di tutto: interrogativi insoluti, curiosità antiche, affermazioni peregrine, pronunciamenti affrettati, drammi e sogni. Sogni ad occhi aperti e chiusi, sogni che adattano la realtà al desiderio divenuto ossessione nel singolo, ed in cui anche l’amata, già fidanzata ad altri, può aprirsi alle concessioni di mai. Parlare a ruota libera affranca l’animo, permettendogli di librarsi verso vette più alte fino a convincersi che “parlare per noi è un mestiere”, ma serve anche a dare il giusto smalto alle piccole cose quotidiane: “Il pane di Napoli ha un sapore ineffabile. Se dovessi comunque scegliere una parola per definirlo, direi amicizia. Un gusto che mescola il selvatico al familiare, che accosta il passato remoto al presente, che concilia l’istinto con la razionalità, che mette a confronto i sentimenti, la lealtà e l’amore, e li radicalizza. Non mangerò mai più per tutto il resto della mia vita un pane così altruista e al medesimo tempo così possessivo.”
E se le conseguenze della guerra sono lievi per chi durante essa si è affacciato all’adolescenza, la città, la sua realtà, le sue aspirazioni, sono materia ben viva, anzi fondamentale, nella dialettica del gruppo: “Che cos’era e che cos’è la qualità della vita per Napoli? È campare spesso fuori dalle regole, dando alla illegalità una sequenza ambigua che può passare per legalità. È tradurre l’anormale in normale. Mettere al posto della razionalità l’irrazionalità…. Contrariamente a quello che induce a credere la sua fama di inferno, questa è una città che aspira al cielo. Appare sempre protesa verso l’alto, si offre all’empireo con vezzi tipicamente femminili, mosse provocanti, ammiccamenti irresistibili. Forse solo così… si giustifica il fatto che Napoli è piena di salite. È come se cercasse la congiunzione carnale con le nuvole….” In un simile teatro d’azione, nessuno può abdicare al proprio ruolo e tutti debbono essere vigili, nel proprio e nell’altrui interesse: “Occhi sempre spalancati hanno i suoni della città, quelli dei pianini superstiti e quelli che emette talvolta il panorama, quelli che provengono dalle solidarietà silenziose tra sconosciuti e quelli che decorano i gesti. Anche quando sembrano attoniti, indifferenti, folli persino nella loro fissità, gli occhi di Napoli centrano sempre il bersaglio.”
Ciascuno degli uomini in sboccio, proiettato verso l’avvenire, vuole diventare un altro; ciascuno coltiva l’aspirazione segreta di chi si affaccia alla vita di adulto: “Tu ti vuoi liberare del liceo, dell’università, dei tremori, delle passioni che hai coltivato finora, prima di salire sul treno. In questo momento tu, pensaci, assomigli al nostro pomeriggio di luglio che non vuole farsi sera.”
Poi, appena diplomati, per qualcuno il lavoro, conciliabile con l’università, e così a Fulvio si dischiude la difficile strada del giornalismo mentre si viene a creare lo spazio per agire concretamente qualcuno dei mille concetti enunciati per anni solo verbalmente: del suo primo stipendio – trentamila lire! - Francesco fa parte con i compagni, Federico e Fulvio, in ossequio ad una delle tante teorie comunitarie.
È il trionfo conclamato della pratica sulla dottrina! E gli obiettivi dell’uno, in questa nuova fase della vita, diventano quelli di tutti, del gruppo, che aspira legittimamente, come un solo uomo, ad “infuturarsi” al meglio.
Come sempre, dalle incerte voci giovanili, che vanno smorzandosi, prende corpo la sostanza del futuro - per i singoli attori come per la società nel suo complesso - e, quando il libro termina, noi, con le orecchie sature dei tanti discorsi ascoltati, restiamo a dialogare con i giovani, immedesimandoci nei problemi della loro routine, gonfia di promesse. Sappiamo che sempre troppo presto arriva, è arrivato o arriverà per ciascuno lo sgradito risveglio: “Oh de’ verd’anni miei sogni e bugiarde larve, se troppo vi credei l’incanto ora disparve.” (ERNANI, atto III, scena II).
“Il pomeriggio di luglio si è accomodato su una sedia a sdraio che sta vuota dinanzi a noi: decide di non annottare, si ribella alla legge del tempo. Ha scoperto la gioia dell’irrazionale, del capriccio.”