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Cultura
Mastriani, quello conosciuto
La penna di un artigiano tra ‘basso’ romanticismo e alto realismo
di Emanuela Cicoira
Se qualcuno, non di Napoli, avesse domandato a Francesco Mastriani di cosa si occupava nella vita, e quello avesse risposto “scrivo”, l’altro avrebbe forse ritenuto opportuno perfezionare la domanda: “intendevo di lavoro”…
 
Infatti, classico caso della ben nota serie “la letteratura non dà il pane”, questo famoso (ma non troppo) artigiano partenopeo della scrittura, di cui oggi ricorre il centonovantesimo anniversario della nascita – romanziere, giornalista, drammaturgo, novelliere, autore di strenne, confezionatore instancabile di feuilletons, precursore del noir e del giallo – faceva l’impiegato del dazio, il precettore privato, il professore di lettere.

Il verde fu la costante tonalità di colore delle sue tasche (nella biografia, il numero delle case cambiate è l’unica voce che può competere con quello delle opere scritte: 900 secondo la catalogazione del figlio Filippo). La sua penna, invece, spaziava ampiamente dal rosa al giallo, dal rosso al nero. Catturava il grigiore di certi palazzoni cadenti dei Quartieri Spagnoli, il blu scuro umidiccio dei cieli nascosti fra i tetti del porto, il plumbeo nerume delle notti invernali, quando le gracili finestre e le malmesse porte dei ‘bassi’ celavano meglio gli intrighi, meglio anche delle baroccheggianti stanze delle dimore di nobili e ricchi…

La sua penna narrava la miseria e la sofferenza di una Napoli dell’Ottocento abbandonata a sé stessa, sfiduciata e derelitta; una Napoli da difendere e da capire, con la sua accozzaglia di vite, la sua aura di ancestrale tristezza; quel fatalismo ineluttabile: “comme vuole ’a sciorta”…

Perché, nella letteratura autoctona, Napoli è stata sempre più protagonista che sfondo. Gli scrittori lo sanno: ha troppo carattere per starsene buona buona a fare la cartolina, Vesuvio mare albero e barchette. È presuntuosa dipinta, figuriamoci narrata…

E, come ebbe a dire Benedetto Croce, a Napoli Mastriani, il sensibile, l’emotivo, l’infaticabile paladino del nazional-popolare per eccellenza, era letto da tutti fuorché dagli intellettuali, il cui riguardo, nei confronti dei locali romanzetti d’appendice, si riduceva al trascuramento consapevole.
 
Scriveva soprattutto feuilletons, è vero, letteratura di consumo, destinata al vasto mercato della plebe comune. Le testate giornalistiche pubblicavano racconti a puntate per accompagnare le notizie, la gente si appassionava e comprava il giornale per appurare il seguito (sicché alla fine le notizie accompagnavano i racconti). ‘Basso’ romanticismo, veniva classificato il genere – basso? Hogo, Dumas, Sue?…

Intricatissime vicende di camorra, di vendetta, di amore e di sangue; truculenti ammazzamenti e incontenibili passioni; onore e povertà, e tanta tanta pena, e fievoli speranze. Mastriani produsse milioni di intrecci. La fantasia di quest’uomo non aveva limiti. Se qualche volta ne aveva, gli venivano dalla fretta; glieli imponeva la vita materiale, la necessità straziante di dover guadagnare ogni giorno quelle poche lire per tirare avanti. Eppure non viaggiò, né appartenne ad alcun circolo artistico. Quando nel 1891 morì, Matilde Serao, in una sentita lettera di commemorazione pubblicata sul Corriere di Napoli, lo definì un “narratore per istinto”, uno che non aveva visto il mondo, ma che possedeva un mondo intero di ‘istorie’ nella mente, in sé “tutti i bizzarri racconti di strani casi avvenuti a personaggi singolari”.

“I vermi”, “Le ombre”, “I misteri di Napoli”, “La cieca di Sorrento”, “La Medea di Porta Medina” sono solo i titoli più noti ed apprezzati, quelli per cui i concittadini che lo incontravano per strada, modesto e solitario, umile come un personaggio dei suoi, gli chiedevano: “è lei l’autore dei romanzi di Francesco Mastriani?”…

Le storie di Mastriani commuovevano ed emozionavano perché il primo a commuoversi ed emozionarsi era lui stesso; per la profonda pietà che emanava dai suoi fiumi d’inchiostro.
 
La sua scrittura a tratti ingenua e grezza, talvolta appiattita su un troppo elementare concetto del bene e del male, potrebbe sembrare esagerata e irreale a un lettore di oggi. Valgano, in proposito, le parole di una studiosa inglese del tempo, Jessie White Mario, che, dopo aver dipinto un quadro agghiacciante della città, suggerì: “chi vuole apprezzare Mastriani veda Napoli, poi lo legga”; e valga la difesa accorata della già nominata Serao, la quale alla fine così sentenziò: “tutti risero, allora, quando Francesco Mastriani, nel solo momento di orgoglio della sua umile esistenza di romanziere, scrisse di aver voluto, prima di Emilio Zola, fare il romanzo popolare verista […], ma egli non aveva assolutamente torto. Aveva torto di volersi misurare con Emilio Zola, ma attraverso tutta la rettorica delle sue idee […] fiorisce una certa verità popolare che sarà il punto di partenza del romanzo napoletano […], fioca lampada nella notte profonda che altri vedrà”.

Dunque va bene, Mastriani non era Zola; e nemmeno Verga: i Vinti partenopei trovarono in lui cantore meno degno dei corrispettivi isolani – benché sicuramente un po’ più vinti. Ma di recente un importante riconoscimento è venuto allo scrittore da Massimo Siviero, autore dell’accattivante “Come scrivere un giallo napoletano”, secondo il quale egli avrebbe anticipato, col romanzo “Il mio cadavere”, datato 1852 – noir psicologico ricco di elementi horror, di colpi di scena, di pagine di medicina legale  – non solo i nostri De Marchi e Invernizio, ma addirittura l’illustre Conan Doyle, papà del noto Sherlock. “Conan Doyle avrà letto “Il mio cadavere”?”, si chiede l’acuto Siviero.

Beh, magari Conan Doyle no, ché fama il nostro non ne ebbe abbastanza (fame senz’altro di più…). Ma Veraldi, Ferrandino, de Giovanni, Mazzotta, degni esponenti dell’illustre tipologia del giallo napoletano, ecco, loro probabilmente sì…
23/11/2009
  
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