Cultura
Dove giace il mio Re
di Luigi Alviggi
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Desidero parlarvi di un libro aspro, fuori dal comune, che poco concede ai canoni usuali del racconto senza per questo cadere nelle astrusità dell’originalità ad ogni costo; un libro che si fa leggere tutto d’un fiato perché la vicenda avvince, nel profondo, e ci trascina lungo le tappe di un rapporto a due spigoloso, difficile, che non indugia mai ad autocelebrarsi ma che per lei arriva a coincidere con i confini della vita stessa.
Decisamente un’oasi allettante nell’imperversare odierno di gialli in tutte le salse.
Il lungo racconto di Ada - protagonista con Marco dell’amore sventurato narrato – apre in noi finestre recondite che sappiamo di possedere, spesso senza aver avuto occasione di aprirle, con il risultato di condurci ad una rassicurante pace finale con noi stessi, pur amareggiata da un pizzico di rimorso ancestrale: siamo uomini e, dunque, partecipi e correi delle colpe collettive di una società troppo spesso sorda alle richieste del singolo. Marco ed Ada sono i poli del legame, un tempo forte, che oggi non sa arrestarsi nel precipitare lungo gli scoscesi tornanti della realtà che avvolge tutti noi.
È un amore che non ha saputo trovare regole fisse, limiti precisi, in un mondo che cambia troppo repentinamente nei desideri di ciascuno e troppo lentamente nelle dinamiche collettive. Un amore che si è lasciato andare alle lusinghe dell’effimero, senza saper cadenzare il respiro sulle interne possibilità dirompenti, capaci di trasformare l’oggettività esterna più avversa. Si è accartocciato nell’oggi tarpandosi le ali, pur capaci di ogni volo: “ chiamo a raccolta la vita e la tengo ferma intorno a me… e la stringo con le gambe e con i denti, perché non mi sfugga… sola per le squassate praterie del mondo.”
Le famiglie appaiono defilate dai grossi problemi della coppia, irrigidita dagli obblighi del ceto quella di lui, partecipe ma non all’altezza quella di lei, che troppo facilmente si lascia zittire da risposte di una superficialità estrema, ahi oggi quanto comuni! Ed il primo anello che potrebbe consolidare una resistenza a due divenuta oltremodo fragile viene meno, polverizzato da non si sa bene cosa: “ Rispondo di sì, ed è tutto. E siamo qui, intorno a questa tavola a difendere la nostra vita. Ma le nostre armi sono così fragili, così spuntate. Il mondo potrebbe sommergerci con uno sbadiglio, insieme a tutti gli abitanti del quartiere, e nessuno se ne accorgerebbe. “
E nel sottofondo - vieppiù assordante, pagina dopo pagina - avvertiamo lo spaventoso silenzio degli “altri”, del mondo circostante, che non sa cogliere l’urlo del naufrago che affonda nei flutti, di chi scende nei bassifondi del proprio essere senza una minima luce rischiaratrice che possa guidarlo fuori dal labirinto in cui si è cacciato.
È questa la vera tragedia che emerge dalla narrazione, che trascende il lancinante dolore dei giovani e rende la povera vicenda singola emblema di un triste destino comune a molti. “ Andiamo via, penso, ti parlerò ancora del sogno. L’usignolo ha un canto dolcissimo e i monti sono pieni della neve più fine. Basta prendere un treno, un treno qualsiasi. Ci deve essere un posto per noi, da qualche parte nel mondo. Alla stazione, sul marciapiedi, i bagagli hanno voglia di partire. Un fischio lacera l’aria e l’uomo col berretto rosso fa un segno e in quel segno s’alza il canto della liberazione. Tutto il mondo parte con noi e tutto il mondo si libera dalla pena. “ Il disincanto estremo arriva a coinvolgere anche lo strumento più raffinato dell’umana comunicazione: “ ho attraversato negli anni un mare gonfio di parole ed ora le parole non hanno più la forza misteriosa di un tempo, non c’è più stupore in esse, né magia.“
Abbandonati a se stessi, i due amanti non sanno uscire da un orizzonte che si è pericolosamente incurvato e dal quale adesso diviene davvero difficile saper imboccare autonomamente la giusta via d’uscita: “ Ma ora la sua mente è lontana, perduta in un mondo di misteri e di magie dove io non riuscirò mai ad entrare. Il mio re è lontano, nell’oro straziato del suo regno, e non degna di uno sguardo la sua schiava che siede e si tormenta sulla sponda del Nilo con l’umiltà di chi contempla la propria miseria. “ E la schiava giunge anche a vendere se stessa in nome di quest’amore, squallidamente, senza versare una lacrima, resa arida dentro dal grande dolore e dalle troppe sconfitte.
Lo scrittore è attento a trasformare la sua straordinaria sensibilità in uno strumento eccelso, a mezzo del quale eseguire sinfonie di rara bellezza cui partecipiamo, soavemente stupiti. Anche la città, coi suoi scorci, le strade, le case, è presente e fa sentire la sua voce costante: “ Nella notte d’estate la città è tutta intorno a noi, affettuosa, vuota ed essenziale, e discreta, e umile, e respira piano come un grande animale in agonia. Lungo i vicoli sale il fiato del mare e sfianca il caldo agli angoli delle vie. È l’ultimo viaggio, l’ultima corsa per questa città amata ed odiata, lungo questo immenso respiro di gente e di pietre che s’affaccia sfinito sul mare. “
L’originalità e la perizia degli accostamenti lessicali - e sono innumerevoli i casi nel testo - non possono non affascinarci e ci portano, nel contempo, ad insoliti sussulti del pensiero, proprio per questo ancor più apprezzati: “ Esco, risalgo le viscere del mondo verso la luce del mattino che inonda il cortile.... me ne vado per la città, verso casa, con tutti i miei mattini assassinati sulle labbra.“
E con lo sguardo interessato della gioventù di lei sulla grande città, sfondo al dramma sofferto, minimo e gigantesco, “ le mille facce della gente, i ragazzi innamorati, i caffè, gli odori e i sapori dei cibi… “ - aspetti correnti della vita quotidiana di tutti - si chiude il libro, dischiuso verso l’alba di un domani sperato migliore, auspici un solitario bambino ed il suo cane che giocano, nel cortile di un vecchio stabile di periferia….
Il compianto Rosario, napoletano di nascita e di vita, ci ha lasciato due anni or sono.