Approfondimenti
I miei primi 70 anni - 2
di Achille della Ragione
Dopo le medie scelsi il liceo scientifico, invece del classico, ritenendo più utile approfondire la matematica e l’inglese, invece di dedicare tempo ad una lingua morta come il greco.

L’istituto più vicino casa era il Cuoco, sito nella popolare via Foria, ma preferii iscrivermi al Mercalli, frequentato dalla gioventù bene di via dei Mille e soprattutto dalle ragazze più chic ed eleganti della città.

A metà dell’anno scolastico fu aperta una succursale al Vomero, in una traversa di via Cilea: via Albino Albino, alla quale venni trasferito d’ufficio.

Tale istituto è rimasto per anni senza nome e la cosa più sensata, essendomi lì maturato, mi pareva che venisse intitolato con il mio cognome, per cui grande è stata la mia meraviglia quando, dopo circa 10 anni, si è deciso di dedicarlo ad un Carneade qualsiasi: Galileo Galilei.

Il secondo anno fu il più spinoso, perché venni rimandato in tre materie, complice l’aggravarsi delle condizioni di salute di mio padre, che morì pochi giorni dopo l’uscita degli scrutini.

Dopo un’estate dedicata ad uno studio, se non proprio matto e disperatissimo, quanto meno indefesso, a settembre 2 sei ed un cinque costituirono un’amara delusione e si tradussero in una bocciatura.

Ma non mi persi d’animo, decisi che avrei fatto due anni in uno: mi iscrissi al secondo, entro marzo mi ritirai e sostenni presso il mio liceo a giugno l’esame di ammissione al quarto anno, che superai brillantemente con il plauso della commissione.

A ottobre ritornai nella mia classe per la gioia dei miei vecchi compagni e degli stessi professori.

L’esame di maturità lo preparai con Osea, una fanciulla dagli occhi devastanti; lo superai con la media del 7 e punte di 9 in fisica ed in filosofia.

Per ricordare quegli anni felici ripropongo ai lettori alcuni miei articoli: da un ricordo del mitico professor Maruotti alla nascita del Fico, un night ancora sulla breccia, che deve il suo nome alle mie predilezioni, nel campo della frutta naturalmente.

Un professore di altri tempi
Gerardo Maruotti era un professore straordinario di quelli che non siedono più sulle cattedre della disastrata scuola italiana.

Pugliese, grande letterato, iniziava le sue spiegazioni in si bemolle per terminarle con acuti poderosi, con pugni sul tavolo, infarciti di parolacce, e poiché soffriva di emorroidi, gli ultimi minuti erano per noi studenti un esaltante godimento e per lui un gradevole supplizio.

Dopo 30 minuti di eloquio i personaggi da lui evocati sembravano rivivere in mezzo a noi, lasciando momentaneamente l’empireo dove vivono in eterno: Paola e Francesca, Achille ed Ulisse, don Chisciotte, Amleto e tanti altri immortali creati nei millenni dalla fertile fantasia di scrittori e poeti di ogni nazionalità.

Lui stesso era poeta ed aveva curato un’antologia della letteratura italiana ad uso dei licei.

Una mia compagna di classe, Letizia Petré, conosceva a memoria molti passi dei suoi canti dauni, mentre Achille Morena gli procurava gli inviti alle conferenze che si tenevano nella mitica saletta rossa della libreria Guida.

Lo abbiamo avuto come docente al liceo scientifico Galilei di Napoli, per molti anni nella mitica sezione C, nota per essere quella alla quale era assegnati i professori più preparati e più motivati.

Egli possedeva una casetta con giardino al villaggio Coppola, da poco costruito e, all’epoca, ambito luogo di villeggiatura; una domenica dell’ultimo anno, quando già alcuni di noi possedevano l’auto, ci invitò a trascorrere assieme un giorno di festa.

Ad ora di pranzo ci recammo in un ristorante della zona e poi tutti sotto al patio a spegnere le candeline di un compleanno con tanti “anta”.

Oggi, andato in prescrizione il reato, posso confessare un piccolo peccato di gioventù. Spesso, quando con gli amici si faceva molto tardi, usciti dalla discoteca, chiamavamo al telefono il professore il quale, per il suo carattere irascibile, andava su tutte le furie, vituperando le divinità delle principali religioni monoteiste.

Le telefonate notturne sono state per anni una mia specialità. Ogni anno allo scoccare della mezzanotte, chiamavo immancabilmente il professore oltre ad una certa Assunta Aspettapesce, che alle mie avances, mi bombardava di parolacce in perfetto vernacolo.

Ritornando al nostro amato Gerardo, del quale conservo religiosamente a casa tutte le foto della classe nella quale egli compariva immancabilmente ed alcune foto scattate al villaggio Coppola, voglio raccontare alcuni sfiziosi aneddoti.

Il primo, innocente, quando praticai un buco in corrispondenza con la classe attigua, frequentata da una classe superiore alla nostra, i cui compagni, dopo pochi minuti, ci fornivano le soluzioni dei compiti assegnati in classe, soprattutto di matematica.

Il secondo, più birichino, fu quando, nottetempo, misi del cemento nella serratura della scuola, provocando un filone generale.

Il terzo è il più birbante: una sera misi nello sciacquone dei bagni una bottiglia colma di urina, simulando una molotov.

Poi, mentre tranquillamente mi facevo vedere davanti all’ingresso, un amico avvertì la polizia: ”attenti c’è una bomba nella scuola”. Arrivarono gli agenti e fu un altro giorno di allegro filone di massa.

Qualche anno fa, leggendo i necrologi del Mattino, appresi della triste dipartita. Confesso che piansi; professori come Maruotti non esistono più e per questo che ho accettato volentieri l’invito della figlia Valeria di ricordare l’estroso personaggio.

La nascita del "Fico"
Gian Filippo è da oltre quarant’anni uno dei miei amici più cari, a tal punto che il mio unico figlio maschio ha preso il suo nome.

Discendente da una delle più ricche famiglie tedesche è riuscito a dilapidare in pochi decenni un immenso patrimonio. I suoi antenati erano illustri scienziati e celebri docenti universitari, il padre ammiraglio, ma nel suo Dna non vi è mai stata alcuna traccia del passato splendore celebrale.

Lo conobbi al primo anno di università e volevamo preparare assieme l’esame di anatomia, con noi anche Emanuele, un clone di Gian Filippo in quanto ad intelligenza, entrambi erano al loro quarto tentativo dopo altrettante solenni bocciature.

Studiavamo nello splendido salone della sua villa di via Tasso, una dimora tra le più prestigiose della città, acquistata dalla madre quando la sua famiglia si trasferì all’ombra del Vesuvio da Berlino, dove possedeva un imponente castello distrutto dalle bombe della seconda guerra mondiale.

Il giorno della verità io rimediai un 29, mentre i miei amici furono nuovamente trombati.

Emanuele decise di abbandonare gli studi e di vivere, beato lui di rendita, cosa che fa ancora oggi, mentre Gian Filippo ascoltò il mio consiglio e si iscrisse a Veterinaria, ritenendo che un cane un domani, forse, si sarebbe fatto curare da lui, un cristiano giammai.

E fu la sua fortuna perché in breve si laureò e, a dimostrazione del declino inesorabile della nostra università, ha ricoperto per decenni la carica di docente nell’istituzione federiciana.

La villa aveva tre piani di 200 metri quadrati ciascuno ed era circondata da 2000 metri di giardino con alberi secolari.

Al primo livello vi erano i saloni di ricevimento, che oggi sono trasformati nel ristorante il Gallo nero, al secondo vi erano le camere da letto, mentre un piano leggermente affossato versava in stato di abbandono da anni.

Convinsi il mio amico a concedermelo per un anno gratuitamente ed io lo avrei trasformato in una discoteca, che gli avrei poi ceduto dopo un utilizzo di 12 mesi.

Il mio amico credeva che avrei chiamato un’impresa di costruzioni per la ristrutturazione, viceversa schiavizzai tutti gli amici, con la promessa di ingressi gratuiti e secondo le competenze affidai loro un incarico materiale…

Diego e Massimo, i più robusti, furono impegnati per i trasporti più pesanti e fisicamente collocarono a regola d’arte il pavimento della discoteca; Luciano, esperto di elettricità si interessò degli impianti, per la parte idraulica Leandro superò se stesso, mentre i mobili e le altre suppellettili furono costruiti (unico apporto esterno) da don Salvatore, un pregiudicato riciclatosi come falegname.

Dopo trenta giorni il locale era pronto per l’inaugurazione, non restava che dargli il nome e poiché a quell’età, ma anche in seguito, il pensiero corre sempre dietro la stessa idea, lo chiamai Il fico, in onore della sorella, nome che conserva ancora oggi a distanza di otto lustri.

La serata di gala, ed anche le successive, fu allietata dalla musica dei Labbers, un complesso di quattro amici, che, con la scusa di lanciarli, feci esibire gratuitamente per un mese.

Alla porta Nando, il più robusto degli amici, al quale nessuno sfuggiva, al bar Sergio, che abilmente, utilizzando micidiali bustine, preparava intrugli che avrebbero avvelenato uno struzzo e spacciava per champagne francese il nostrano famigerato Perlino.

Il divertimento era assicurato grazie alle nostre simpatiche amiche che organizzavano irresistibili cotillons, privi di ricchi premi.

Tra i più eleganti Gennaro e Lucio, spesso accompagnati da belle ragazze senza mai concludere niente di penetrativo.

L’atmosfera era festosa ed il divertimento assicurato, ma l’impegno di dover stare nel locale ogni sabato e domenica dopo pochi mesi mi pesava troppo, per cui accettai l’offerta di Gian Filippo di subentrare prima nella gestione del locale.

In cambio mi diede uno splendido brillante di quasi due carati, che gli era stato restituito da una fidanzata che lo aveva piantato e che io, dopo anni, feci pegno del mio eterno amore con Elvira.

Dopo poche serate vi fu la visita con relativa multa salatissima della Siae e dopo alcuni giorni si presentò la malavita a richiedere la tangente.

Gian Filippo se la fece letteralmente nei pantaloni e mise a presidiare la discoteca don Salvatore, il quale, a suon di mazzate, convinse gli estorsori a girare al largo.

Da allora si è impossessato del Fico che gestisce come sua proprietà ed è già molto che se il mio amico vuole trascorrere una serata non gli fa pagare il biglietto.

1ª Puntata

16/4/2017
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