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Addio a Pino Daniele,
straordinario innovatore
di Angelo Forgione
Se n’è andato come da copione, tradito dal suo cuore debolissimo. Aveva scoperto di averne uno poco affidabile nel 1989, trasportato con i suoi lunghi capelli in un ospedale napoletano con forti dolori al petto.

Era già popolarissimo per il suo innovativo e sperimentale “Neapolitan Power”, con cui aveva rilanciato stilisticamente la canzone napoletana.

Il mercato discografico, per aggredire i mercati discografici internazionali, aveva impattato con la musica straniera, snobbando la produzione partenopea, ritenuta ormai superata.

Molti artisti napoletani si erano arresi ma lui no, e pur cantando la sua lingua aveva proposto un tipo di sound all’opposto della tipica melodia partenopea, quella che tutto il mondo conosceva ma che nessuno riusciva a innovare.

Lo aveva chiamato “taramblù”, un genere innovativo di incontro tra tarantella, blues e rumba, che lo avrebbe poi condotto a straordinarie collaborazioni internazionali.

E ne erano venuti fuori capolavori contemporanei in vernacolo, manifesti di una generazione di giovani meridionali disagiati.

I by-pass che si resero necessari non gli crearono particolari problemi e lui, a mo’ di esorcismo, li battezzò ‘o tagliando, come quello della manuntenzione programmata delle autovetture.

I suoi fans iniziarono a seguire ogni suo concerto come fosse l’ultimo, e in effetti il grande innovatore, pur continuando il suo brillante viaggio, prese un’andatura diversa, con la musica, con Napoli e con la sua famiglia.

Lo segnò la fine del suo grande amico Massimo Troisi, anch’egli artista napoletano dal cuore assai debole, uscito di scena troppo presto tra applausi e lacrime, come Pino forse temeva di finire: stop alla lingua napoletana, la sua musica perse l’impostazione blues e si fuse col pop commerciale più orecchiabile.

Fattosi da parte lui, via libera al ritorno al classico contaminato dal jazz e dal blues di Renzo Arbore, ma per Pino Daniele fu una sconfitta della città.

“Napoli non canta più”, disse nel 1993 a Mario Luzzato Fegiz per il Corriere della Sera.

“Con Nuova Compagnia di Canto Popolare, Napoli Centrale, Bennato, Tony Esposito eravamo diventati un punto di riferimento internazionale sul piano musicale e culturale. Oggi lo sfascio sociale ha portato alla deriva anche il movimento musicale.
Ciascuno ha anteposto il suo ego a tutto il resto. Ed è stata la fine. Non bastano tentativi pur lodevoli come quelli di Arbore per ribaltare la situazione”.

Era vero, per certi versi, perché l’esigenza linguistica e la “distrazione” degli artisti napoletani stava iniziando a favorire l’avvento di una sottocultura melodica e di uno stile di canto per una fascia sociale incolta.

Anche Pino, però, si era sottratto alla straordinaria ventata di cui era stato straordinario ispiratore.

Non cantava più in napoletano ma continuava a ragionare da meridionale (Accidenti a questa nebbia / te set adre a laurà? / Questa Lega è una vergogna / noi crediamo alla cicogna / e corriamo da mammà), salvo poi, dopo qualche tempo, dirsi d’accordo con la Lega per le dichiarazioni sull’emergenza rifiuti in Campania.

Solo nel 2001 vi fu un riavvicinamento alle origini con l’album Medina, ma le vere perle musicali, impareggiabili, le aveva già consegnate alla cassaforte dell’eternità, ridando nuova linfa alla tradizione della Canzone di Napoli, che, nonostante tutto, avrebbe travolto artisti di altre estrazioni come Lucio Dalla.

Venticinque anni di revisioni in officina e poi il motore si è definitivamente fermato. Non la colonna sonora della nostra vita.
5/1/2015
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