L'Opinione
La Scala di Milano
figlia dell’Illuminismo napoletano
di Angelo Forgione
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Il Real Teatro di San Carlo è il più antico e,
per opinione diffusa, il più bel teatro lirico del mondo. È il luogo in cui è passata la storia e dove la musica è cambiata nel Settecento.
Ma come in molti stranieri non conoscono la
Reggia di Caserta, allo stesso modo la reggia della musica di Napoli è meno nota e considerata del
Teatro alla Scala di Milano.
Realmente bellissimo, il
San Carlo lo è diventato nel 1817, quando, dopo un incendio devastante, fu ricostruito su progetto di
Antonio Niccolini, il quale, in soli sei mesi di lavoro, restituì a Napoli e al mondo il gran teatro, mutato nella sala (oltre che nella facciata da lui realizzata nel 1810), ancor più bella di quella rococò firmata nel 1737 da
Giovanni Antonio Medrano.
Eppure, il mondo che pensa all’Italia ha come riferimento il
Teatro Alla Scala di Milano, che fu costruito nel 1778, quarantuno anni dopo il napoletano, dall’architetto
Giuseppe Piermarini, uno dei più celebri, se non il più celebre, degli allievi di
Luigi Vanvitelli, architetto dei
Borbone di Napoli.
Dopo una prima formazione nella sua Foligno,
Piermarini si recò a Roma per studiare col suo maestro impegnato per la corte papalina.
Il
Vanvitelli lo volle con sè una volta chiamato a Napoli da
Carlo di Borbone, e lì si dedicò allo studio degli
scavi archeologici vesuviani, che, a partire dalla metà del Settecento, iniziarono a sconvolgere prima il gusto vanvitelliano e poi quello di tutti gli architetti seguenti.
A Napoli finì il
Barocco e nacque il
Neoclassicismo, ed è proprio lì che guardavano i nuovi architetti europei.
Tra il 1765 e il 1769,
Piermarini collaborò con il
Vanvitelli alla
Reggia di Caserta.
In quegli anni si dedicarono alla realizzazione del raffinatissimo Teatro di Corte, voluto in corso d’opera da
Re Carlo.
Nel primo progetto vanvitelliano, infatti, il Teatrino non era previsto, ma fu aggiunto per volontà sovrana, visto l’enorme eco che il
San Carlo aveva velocemente avuto in tutt’Europa,
Carlo pensò bene di far realizzare qualcosa di simile anche nella nuova reggia, in vista delle nozze del figlio
Ferdinando IV con
Maria Carolina d’Asburgo.
Seppur piccolo, stupì per la sua bellezza superiore a quella del primo
San Carlo, da cui trasse la tipologia di sala a ferro di cavallo, ossia “all’italiana”, che garantiva un’elevata qualità acustica. Un gioiellino con cinque ordini di palchi interrotti da un Palco Reale che sovrastava l’ingresso centrale, sormontato da una grande corona dalla quale discendeva un ricco drappeggio di cartapesta di colore azzurro dei Borbone con gigli dorati.
Sala abbellita da fasci di pilastri e da dodici colonne in stile corinzio di marmo alabastrino provenienti dal Serapeo di Pozzuoli; il palcoscenico, largo quanto la sala, sarebbe stato aperto sui giardini reali nel 1770 da
Francesco Collecini con un portale smontabile, dando vita a una prospettiva di grande effetto scenografico.
Terminata la costruzione del teatro palatino,
Vanvitelli fu richiesto a Milano per il restauro del
Regio Palazzo Arciducale dal conte
Carlo Giuseppe di Firmian, già ambasciatore d’Austria a Napoli dal 1752 fino alla nomina di governatore generale della Lombardia austriaca.
Vanvitelli, oltre il figlio
Carlo, si portò dietro anche il
Piermarini.
Ma i contrasti con la corte di Vienna convinsero il maestro a tornarsene subito a Napoli per dedicarsi completamente alla
Reggia di Caserta, trasferendo l’incarico all’allievo, che ne mise a frutto l’insegnamento realizzando diversi edifici neoclassici e ottenendo subito grande fama nella città lombarda.
Il Neoclassicismo architettonico di matrice napoletana iniziò così a dilagare a Milano, una città in cui a
Giuseppe Piermarini si accodarono il suo allievo
Luigi Canonica,
Giacomo Quarenghi e il napoletano
Carlo Rossi.
Due architetti questi ultimi che, successivamente, resero neoclassica anche la russa San Pietroburgo.
Il
Piermarini avviò nel 1772 la realizzazione del
Palazzo Belgioiso per il principe
Alberico XII di Belgioioso d’Este, una residenza nobiliare ispirata alla
Reggia di Caserta.
Prima di nominarlo Imperial Regio Architetto, fu proprio l’imperatrice
Maria Teresa d’Austria, madre della regina di Napoli
Maria Carolina, a incaricare il Piermarini di costruire il “
Nuovo Regio Ducal Teatro”, date le sue competenze acquisite al fianco dell’architetto reale di Napoli.
Piermarini predispose la demolizione della chiesa gotica di
Santa Maria alla Scala, intitolata alla veronese Beatrice Regina della Scala e risalente al XIV secolo, e avviò l’esecuzione del progetto, d’impronta napoletana, rifacendosi cioè al
Real Teatro di San Carlo e al
Teatro di corte della Reggia di Caserta cui aveva lavorato anni prima.
Piermarini fece un gran bel lavoro, che
Vanvitelli avrebbe certamente apprezzato se non fosse morto nel 1773. Il teatro milanese probabilmente superò per bellezza il primo
San Carlo rococò.
L’Opera, a Milano, non era a quel tempo sacra come a Napoli, tant’è che, durante gli spettacoli, il teatro veniva usato dai proprietari dei palchi per ospitare invitati, mangiare e, nel ridotto, giocare d’azzardo.
Stendhal vi entrò nel 1800 e lo considerò il più bello di tutti , tanto che nel suo
Roma, Napoli e Firenze – Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria del 1816 scrisse:
“[…] È per me il primo teatro del mondo, perché è quello che procura dalla musica i maggiori piaceri. […] Per quanto riguarda l’architettura, è impossibile immaginare nulla di più grande, di più magnifico, di più solenne e nuovo […]“.
Una testimonianza utile per quegli anni, ma aggiornata dallo stesso scrittore francese nel 1817, diciassette anni dopo, allorchè si trovò a Napoli per assistere alla seconda inaugurazione del
Real Teatro di San Carlo,
quella della ricostruzione post-incendio firmata da
Antonio Niccolini con tanto di azzurro borbonico.
Quel che di più grande, di più magnifico e di più solenne non era risuscito a immaginare a Milano, si fece realtà.
Il piccolo
Teatro di Corte di Caserta era diventato immenso e gli occhi di
Stendhal, che avevano visto la
Scala e altri teatri, rimasero sbarrati alla vista del ricostruito tempio della musica napoletano, capace di suscitare stupore ed emozione fino allo stordimento:
“La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. […] Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare. […] Io stesso, quando penso alla meschinità e alla pudica povertà delle repubbliche che ho visitato, mi ritrovo completamente monarchico”.
Ma allora, perché il più antico e il più bel teatro del mondo, nonché il più glorioso e il più calcato dai più grandi compositori dell’epoca fino alla seconda metà dell’Ottocento, è oggi eclissato da quello milanese?
La
Scala era il luogo di cultura della Milano asburgica, quello in cui i generali austriaci prendevano a ceffoni i borghesi che non si levavano la tuba durante l’esecuzione dell’inno imperiale.
È il teatro di una Milano che nel 1859 passò dal Regno Lombardo-Veneto di controllo austriaco al Regno di Sardegna sabaudo, che si sarebbe allargato a tutta l’Italia.
È il teatro in cui si gridava «Viva Verdi», inteso come acronimo di “Vittorio Emanuele Re d’’Italia”, e si lanciavano volantini antiasburgici dalla piccionaia.
È il teatro che più di ogni altro ha legato la sua storia all’opera di
Giuseppe Verdi, che, una volta divenuta risorgimentale, trovò difficoltà ad andare in scena senza censura nella Napoli capitale indipendente.
Il trionfo del Nabucco (1842) dopo gli insuccessi verdiani precedenti, per il forte sentimento patriottico che suscitò nella Milano attraversata dai fermenti del nascente Risorgimento italiano, rafforzò l’immagine simbolica della
Scala.
Ben 57 repliche oltre le 8 rappresentazioni previste segnarono un record mai registrato né prima né dopo in una sola stagione.
In quell’opera furono colti non solo i sentimenti patriottici degli ebrei esiliati a Babilonia ma anche quelli dei lombardi assoggettati all’Austria.
Quel «Va’ pensiero» inaugurò il percorso che avrebbe fatto di
Verdi il maestro nazionale del Risorgimento italiano, e della Scala il teatro dell’Unità nazionale.
Anche in maniera strumentalmente politica, visto che il compositore di Busseto, nel frontespizio del libretto, aveva dedicato il Nabucco all’arciduchessa d’Austria Maria Adelaide
(“Dramma in quattro parti di Temistocle Solera. Posto in musica e umilmente dedicato a S.A.R.I. la Serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria il 31 marzo 1842 da Giuseppe Verdi”) e che l’impresario
Bartolomeo Merelli, suo amico e protettore, era al servizio degli Asburgo, considerato un “austricante” non gradito in città dopo le Cinque Giornate di Milano del 1848.
Il giovane
Verdi che lasciò Busseto per andare a Milano non aveva alcuna consapevolezza dei moti risorgimentali.
Anche la sua esperienza nel primo Parlamento italiano del 1861 fu più frutto del rispetto per la volontà di
Cavour che un’intima convinzione personale di un dovere istituzionale verso la nuova Italia, che infatti fu interrotto bruscamente con la morte del conte piemontese.
Il glorioso e per nulla risorgimentale
San Carlo, in ottica politica, divenne specchio di Napoli conquistata dai
Savoia, e dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie subì un graduale declino rispetto ai grandi teatri europei, pagando il favoritismo riservato alla storia cui si era legata la
Scala di Milano.
Le fondazioni lirico-sinfoniche italiane versano oggi in gravi difficoltà economico-patrimoniali, ma, in ogni caso, a soffrir meno di tutti i teatri è comunque la Scala, che, oltre alle donazioni private, beneficia annualmente di una quantità di fondi statali per lo spettacolo di molto superiore a quella destinata al Massimo napoletano.
Senza contare il caso limite del
megastipendio del suo sovrintendente e direttore artistico, il francese Stéphan Lissner, con il suo compenso da oltre 1 milione di euro lordi all’anno più benefit e appartamento in centro.