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La favola di Maradona
La sua storia a puntate – 110
di Mimmo Carratelli
Cerco di mettere insieme i ricordi di Napoli. Le notti alla “Chachassa”. La stanza numero 322 dell’Hotel Paradiso, a Posillipo. Maria la gorda. Le brutte compagnie. Non erano segni di divertimento. Erano segnali di disperazione. Era la vita buttata via. Nella droga e con prostitute ubbidienti. Scappavi dalla pressione del mondo, Diego. Scappavi da un figlio maschio fuori del matrimonio. Scappavi da un vita che non era vita. Nessuna libertà, braccato dai tifosi e dai giornalisti. Sempre al centro di tutto, non un attimo di respiro. E il mal di schiena, le infiltrazioni, il massimo che dovevi dare sempre.

Ma il peso grande era dentro di te, Diego. Il peso era il vizio che non ti lasciava più e che tu non lasciavi più. Non ne eri capace. Chi ne è capace? Quanti sono stati che ti hanno “aiutato” a restarne prigioniero per sempre? Non era più l’euforia che cercavi nella droga. Era l’annichilimento, la morte da vivo, lo stordimento, e poi l’alcool per tirarti su, e le notti da inebetito davanti alla televisione senza poter dormire. E altro, altro ancora.

“Pensavo continuamente: devo uscire dalla droga, devo uscire. Avevo gli incubi. Sognavo che mi tuffavo in una piscina e quando riemergevo non vedevo la luce, ma un buio fitto, guardavo attorno a me e vedevo tutto nero. Avevo vergogna di Claudia, delle mie figlie. Mi chiudevo in una stanza per soffrire senza essere visto. Tutti ti vogliono aiutare e tu non vuoi che entrino nella stanza, non vuoi che ti vedano nelle condizioni in cui sei. E’ così, e non puoi farci niente. E nessuno ti perdona. Se ti chiami Maradona non ti perdonano nulla. Sono diventato la peste visibile di tutti i tossicodipendenti. Perché, se sei famoso, ti castigano. Dicono che vogliono aiutarti e ti colpiscono”.

Sei in trappola, Diego, e non vedi uno spiraglio di salvezza. Neanche Dalmita e Gianinna ti hanno fermato.

“Ho parlato con Dalma. Le ho detto: papà ha sbagliato, papà ha provato una cosa che gli faceva male, questa cosa si chiamava droga, quando vedevi papà che si rinchiudeva in una stanza era perché stava male. Mia figlia ha pianto quando gli ho raccontato queste cose. Ora io lo racconto a tutti i ragazzi del mondo perché capiscano e stiano lontani dalla droga. Perché la droga ti ammazza”.

Ti ammazza, Diego, ma hai continuato.

“Ho continuato e ho avuto una grandissima paura della droga. Ho cominciato a sentirmi molto male. Non sentivo più euforia, ma paura. Tanta paura. E allora ho detto: basta, Diego. Ma dire basta non risolveva il problema. E’ necessaria una cura che dura anni, che dura una vita, tutta la vita. E se scegli di stare con tua moglie e le tue figlie, puoi farcela, con la cura puoi farcela. Claudia ha tentato in tutti i modi. Ma io mi chiudevo a chiave in una stanza, non volevo ascoltarla. Lei mi è stata sempre molto vicina. Ho tardato molto a confessare alla mia famiglia che mi drogavo. E’ stato uno sbaglio. Quando prima parli, meglio è. Ai ragazzi voglio dire che non lascino passare molto tempo prima di confessare il vizio. Non devono vergognarsene. Devono chiedere aiuto, umilmente. Devono farlo presto perché più tempo passa, più diventa drammatico. Io, ora, ho problemi di pressione, problemi di cuore, problemi gravissimi. Se aspetti, può anche succedere che ti salta il cuore. Questo bisogna metterlo bene in testa ai ragazzi. Perché con la droga è possibile anche morire. Io ho avuto coscienza di poter morire. Ma non ce la fai. Quando ti droghi non pensi a nulla. Sai che è proibito, che ti fa male, ma non pensi a niente altro. Ed è difficile spiegare perché tornavo a drogarmi. Una volta, in Corea dove è proibito fumare, ho chiesto a un coreano: perché fumi se sai che il fumo ti uccide? E lui mi ha risposto: è molto lungo da spiegare. Con la droga è lo stesso. E’ molto lungo da spiegare”.

Qui, Diego, finisce la tua confessione al settimanale “Gente”. La leggo e la rileggo e cerco di capire. Non è facile, ma bisogna esserci dentro, nella droga, per capire. E’ come la depressione. Se non ci stai dentro, non puoi capirla. E se continuo a fumare, sapendo che il fumo uccide, e fumare immagino sia un vizio “più leggero” della droga, un vizio da cui ci si può liberare, perché non smetto? Ci vorrebbe un po’ di buona volontà per liberarsene, per vincere l’assuefazione alla nicotina.

Immagino che, per la droga, ci voglia invece una volontà d’acciaio che la droga stessa ha già frantumato e che, da solo, nessuno può farcela. Qualcuno ti aiuterà, Diego?

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8/8/2005
  
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