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Sanità
Malattie autoimmuni e terapie biologiche
di Antonio Sarappa
Conoscere la patogenesi di una malattia, cioè di come essa evolve e con quali meccanismi, significa rispondere agli altri quesiti che qualificano una malattia come il decorso, la prognosi e la terapia.

Già perché non sempre la diagnosi è la “summa” di tutti i gradi di passaggio di una malattia. I grandi Maestri della Medicina di una volta, tenevano in sommo privilegio lo studio dei sintomi ma spesso non conoscevano non dico la patogenesi ma talvolta l’esatta eziologia delle malattie. Quante patologie venivano diagnosticate come “idiopatiche” perché non se ne conosceva la causa! E così la terapia era affidata all’acume clinico specie se si dovevano “trattare” malattie per così dire “nuove”. Le malattie autoimmuni sono, in questo senso, paradigmatiche.

L’uso di farmaci aspecifici, o sintomatici hanno tenuto scena per anni. I FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei), chi ha la mia età, non può non ricordare quanto siano stati importanti nel migliorare lo stile di vita di pazienti con gravi patologie dolorose. Basti pensare ad una delle tante come l’Artrite reumatoide, o quella psoriasica e così via tutte le forme reumatiche nosograficamente non inquadrabili. Poi i cortisonici, gioia e delizia dei medici e ultima spiaggia per i pazienti i cui molteplici effetti collaterali si è ritenuto accettarli, nell’economia di gestione terapeutica come il male minore, pur di garantire, nei casi gravi, un lenimento, talvolta momentaneo e fugace, a sintomatologie dolorose insopportabili.

Ma non c’è da disperare: proprio la migliore conoscenza dei multiformi meccanismi patogenetici nelle malattie autoimmuni, ha avviato un capitolo di fecondi studi e interessanti approcci terapeutici.

Una nuova filosofia nel campo della terapia delle malattie autoimmuni tiene ormai da anni banco. Essa è imperniata nello studio di agenti che agiscono ora modulando ora stimolando ora bloccando i diversi “momenti” della risposta immune. Un diffuso ottimismo incoraggiato da buoni risultati, circola non solo tra i medici ma anche, e soprattutto, tra i pazienti che riferiscono miglioramenti un tempo del tutto inaspettati. Queste terapie vengono chiamate “biologiche” perché agiscono in maniera agonista o antagonista, stimolando o inibendo sostanze proprie dell’organismo.

E’ il caso, ad esempio, del recupero dell’omeostasi immunitaria attraverso l’azione sulle citochine che intervengono attivando fondamentalmente due tipi di risposta cellulare, una volta che il complesso antigene-HLA peptide sia stato esposto sulla superficie delle Cellule Presentanti l’Antigene (APC). Ci riferiamo alle cellule Th1 che stimolano i linfociti B a trasformarsi in plasmacellule da cui prendono origine gli (auto)anticorpi e alle Th2 responsabili soprattutto del danno tissutale. 

Se esaminiamo l’andamento delle citochine nelle malattie autoimmuni, osserviamo due aspetti importanti e cioè la loro iper- espressione e ipoespressione. Nelle MICI (Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali), il TNF e l’IL 2,7,10 sono iper-espresse. Nel LES, al contrario, il TNF è ipoespresso. Nell’Artrite Reumatoide, poi, così come nelle vasculiti , è possibile notare sia un’ipo-che un’iperespressione del TNF-α.

L’azione delle terapie biologiche può essere, dunque, antagonista o agonista. Un esempio di antagonismo dell’azione citochinica è offerto, nell’A.R., da farmaci che causano un blocco del TNFα, di uso ormai corrente, con buoni risultati nella prevenzione delle erosioni osteo-cartilaginee. Il farmaco in questione è una proteina di fusione solubile ricombinante costituita  da sequenze di a.a. umani di due domini extracellulari del recettore p75TNFα receptor IgG1, legati al frammento Fc di una IgG1 umana. L’ETANERCEPT, questo il nome dato alla molecola, viene attualmente utilizzato nella terapia dell’A.R. in associazione con il Metotrexato, con buoni risultati sul piano clinico, caratterizzati da un rallentamento della progressione radiografica delle lesioni erosive articolari.

Studi sempre più raffinati hanno condotto alla scoperta di altre molecole utilizzate nella terapia dell’A.R. come l’ADALIMUMAB ( il primo anticorpo monoclonale anti-TNF-α completamente umanizzato costituito da IgG1 ad alta specificità e affinità per il TNF-α) e l’INFLIXIMAB, anticorpo monoclonale per il 25% murino e 75% umano) somministrato esclusivamente in associazione con il metotrexato. L’EMEA (European Medicines Evaluation Agency) ha diffuso le indicazioni per l’uso di questi agenti biologici nella terapia dell’A.R. e in altre Patologie autoimmuni.

Alcuni AA. riportano possibili complicazioni derivanti dall’uso di farmaci anti-TNF-α e un maggior rischio di infezioni talora anche gravi.

Studiare il cosiddetto “profilo di sicurezza” degli anti-TNF-α, escludere patologie infettive prima di dare inizio alla terapia e il periodico monitoraggio del livello autoanticorpale rappresentano i criteri, attualmente disponibili,per stabilire un sicuro piano terapeutico per coloro che sono affetti da malattie autoimmuni                  

Grandi speranze, a mio avviso, possono riporsi nel trattamento delle malattie autoimmuni attraverso il blocco del CTLA-4-Ig o con anticorpi contro il ligando CD40.  CTLA-4, noto anche con il nome CD152 è un recettore espresso sui linfociti CD4+ e CD8+ e appartiene alla superfamiglia delle immunoglobuline. Quando CTLA-4 si lega ai ligandi CD80 e CD86 (B7-1 e B7-2), viene trasmesso all’interno del linfocito un messaggio inibitorio, con il conseguente blocco dell’attivazione; al contrario di quello che accade quando il recettore CD28 si lega agli stessi ligandi del CTLA-4 trasmettendo un segnale attivatore (II° segnale). In questo gioco di attivazione/inibizione, CTLA-4 e CD28 occupano un posto di grande importanza nella regolazione della risposta immunitaria.
 
Tra i numerosi studi sperimentali che danno ragione a questo filone di ricerca, quelli sui topi knoch-out per il gene che codifica CTLA-4, (situato sul braccio lungo del cromosoma 2), evidenziano che in mancanza  di tale recettore, si verifica l’attivazione massiva dei linfociti impegnati nella risposta immunitaria
 
Un altro possibile approccio terapeutico si basa sull’interferenza dell’attivazione delle cellule T mediante peptidi analoghi in grado di ingannare i “peptidi nativi”. Essi si  posizionano sulla superficie delle APC rendendo anergica la cellula T, al cui recettore (TCR)  non può legarsi il complesso peptide-antigene-modificato. Basterà, sono convinto, solo attendere: quanto prima il bagaglio delle terapie biologiche si avvarrà di nuovi strumenti in grado di agire nei vari stadi della risposta immune. Non mancano, però, le perplessità.
 
La possibilità di intervenire su meccanismi delicati come, un esempio tra tutti, il blocco della presentazione ai T linfociti dei complessi antigeni-peptidi-HLA rimane ancora un’ipotesi, interessante sì ma sempre un’ipotesi,. Un solo peptide-HLA può riconoscere e legarsi ad un’infinità di antigeni ciascuno diverso dall’altro così come un solo antigene può essere riconosciuto e quindi legarsi a numerosi complessi peptide-HLA.
 
La conoscenza di questi meccanismi, allo studio di qualificati gruppi di ricerca, potrà riverberarsi anche in altri campi come nella ricerca sui meccanismi che innescano i tumori e  tutte quelle malattie per così dire “nuove” che si affacciano nel già vasto panorama delle patologie di interesse medico. Ancora una volta la parola spetta ai ricercatori Biologi e Medici per comporre il complesso mosaico delle basi molecolari delle malattie in generale e di quelle autoimmuni, in particolare.

4/7/2010
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