Cultura
Viviani 60
L’ultimo “scugnizzo” tra neorealismo e varietà
di Emanuela Cicoira
|
Text Size |
|
“In verità Viviani, sebbene giudicato positivamente dalla critica e dalla stampa del suo tempo, è stato scoperto postumo, ossia è stato considerato un sommo artista del teatro italiano del Novecento solo dopo la sua scomparsa” (Tina Marasca) – tanto per cambiare…
«Arapite, faciteme vedé Napule», disse Raffaele Viviani il 22 marzo 1950, giorno in cui, ormai gravemente ammalato, scomparve dalle scene (per fortuna solo da quelle…).
Voleva salutare la città. E la città dell’importato genio di Castellammare di Stabia, giunto da bambino al seguito dell’omonimo papà impresario prematuramente scomparso, non era quella della piccola borghesia scarpettiana – poi eduardiana – in crisi di identità e di valori.
Napoli nera, la sua: quella della viva realtà suburbana, bassa, umilissima, della quale si sentiva parte per aver trascorso l’infanzia giocando nei vicoli degradati, tra morti di fame, prostitute, spazzini e vagabondi. Popolo autentico, il suo: mortificato dalla miseria, involgarito dall’ignoranza.
Nei suoi impietosi drammi, che fanno ridere per non far piangere, poetici cori di poveracci intonano in controcanto le celebri melodie della città-cartolina, quella dell’iconografia classica stile “saluti e baci dalla collina di Posillipo”. “Saluti e baci da Tuledo 'e notte”, invece, nel teatro di Raffaele Viviani.
Cominciò coi palcoscenici dei quartieri popolari, che il padre riforniva di costumi e di attrezzi d’ogni genere. A quattro anni e mezzo vi salì per fare il pupo in uno spettacolo marionettistico e non scese mai più. Scrisse: «le cose mie non rassomigliano a quelle degli altri, perché fortunatamente le cose degli altri le ignoro». E infatti si formò sul campo, da solo, imparando a leggere e scrivere quasi per uno spontaneo moto di ribellione alla professione della sopravvivenza, praticata per necessità fin da giovanissimo.
Pigliaie nu sillabario
Rafele mio fa tu!
E accumminciaie a correrePoi, il successo…
“Papiluccio” Viviani fu l’ultimo – l’unico? – scugnizzo delle scene napoletane. Genio complesso e difficile, spontaneo e impietoso almeno quanto il grande Eduardo era educato e sensibile (ma le due voci, più che opposte, sono complementari), fissava la bellezza dei suoi drammi nei particolari minori. Non intrecci ben definiti né trame regolari con personaggi compiuti. I testi di Viviani difettano felicemente di programmaticità; di una definizione, a monte, del messaggio.
“'O vico” (1917), “Borgo Sant’Antonio” (1918), “Via Partenope”, “Piazza Municipio”, “Porta Capuana” (1918), “‘Nterr ‘a Mmaculatella” (1918), “Tuledo 'e notte” (1918), “Festa di Piedigrotta” (1919), “‘E piscature” (1925), “Guappo ‘e cartone” (1932)… Nei luoghi dei titoli, regni dell’umile plebe, voci, suoni e colori reali diventano musica e poesia del tempo eterno di Napoli. Figurine deletteraturizzate guizzano in squilibrate storie scritte nella quintessenza espressiva del linguaggio popolare più vero. E se una spiccata attenzione ai fatti minuti della vita quotidiana, insieme all’autenticità della parlata “bassa”, si oppone alla generalizzazione di questioni più vaste, precludendo al teatro di Viviani quel processo di nazionalizzazione subìto invece da quello eduardiano, il neorealismo delle atmosfere avvicina l’artista delle macchiette alla letteratura “sobborghista” moderna; a Ettore Petrolini, ai futuristi marinettiani.
Non a caso la feroce ironia dei soggetti, e il sentimentalismo tragico di certi stravaganti “personaggi fissi” da teatro di varietà (Totonno ‘e Quagliarella, scugnizzo, guappo, delinquente, pisciavinolo, sciupatore…), si prestarono al cinema – nel 1936 sceneggiò con Mario Soldati “La tavola dei poveri”, per la regia di Giulio Blasetti; nel 1939, “L’ultimo scugnizzo”.
La sua drammaturgia, osteggiata dalla cultura fascista per la marcata impronta dialettale, è stata riscoperta postumo, e riproposta, tra gli altri, da Nino Taranto, Roberto De Simone, Toni Servillo. Oggi la critica ufficiale lo ammanta delle sue lodi: a Dio piacendo…