Contatta napoli.com con skype

Cultura
Un umile e grande genio
A 260 anni dalla nascita di Domenico Cimarosa
di Roberto Santucci
A volte, il giardino del vicino sembra più verde del proprio.
È il caso di Wolfgang Amadeus Mozart e di Domenico Cimarosa. Il primo, straconosciuto anche da chi musica classica non ne mastica, meno noto il secondo, e sicuramente apprezzato solo da chi la nobile musica e la melomania ha nel cuore e nel sangue.

Eppure, in un gioco di parole, erano tra loro contemporanei e, tra i loro contemporanei, si contendevano la palma della fama e dell’apprezzamento presso le Corti di tutta Europa.

Il giardino di casa nostra, verde quanto quello austriaco, si chiamava, appunto, Domenico Cimarosa, nato ad Aversa il 17 dicembre 1749, da famiglia povera, che lo divenne ancor di più quando il padre muratore cadde da un’impalcatura nel 1756, lasciando la madre ad accudire il piccolo Domenico che fu preso a ben volere dai Padri del convento della chiesa di S. Severo al Pendino.

Uno di loro lo avviò alle lettere e alla musica, e in questa ebbe progressi così rapidi che fu, dai padri stessi, fatto entrare gratuitamente nel Conservatorio della Madonna di Loreto nel 1761, da dove ne uscì dopo 11 anni e, insieme, prese moglie e scrisse la sua prima opera, Le Stravaganze del Conte, seguita da una farsa, Le Magie di Merlina e Zoroastro.
Non ebbero grosso successo, come ci dice il saggista Francesco Florimo nel 1882: “…La musica perchè di un esordiente fu compatita, tanto più che la poesia aveva poco o niun merito…”

Già dalle successive realizzazioni, però, l’apprezzamento per la sua arte andò aumentando e nel giro di sei anni, con opere come La Finta Parigina, La Finta frascatana, Gli Sdegni per amore, L'Armida immaginaria, riuscì, per il suo stile naturale ed espressivo e la novità delle idee, ad essere già considerato tra i grandi compositori del tempo, Guglielmi, Paisiello e Piccinni.

Nel 1779 fu chiamato a Roma, uscendo per la prima volta dalla sua terra natale, per comporre L’Italiana in Londra, che riscosse un grande successo. La fama di Cimarosa cominciò a viaggiare, prima ancora di lui.

Scrisse opere per  i teatri di Napoli, Roma, Venezia, Vicenza, Torino e proprio qui, con la rappresentazione del Valodomiro, accade il primo di quei tanti episodi che sottolineano la grandissima ammirazione di cui avrebbe goduto negli anni a venire:
A Torino vigeva la consuetudine, dettata dalla corte, che una rappresentazione a cui assisteva il Sovrano, non dovesse durare più di un certo tempo stabilito; a verificare ciò era incaricato un ciambellano che annotava la durata di tutti gli atti, intermezzi e quant’altro, verificando, a somma fatta, che rientrasse nei termini. Accadde anche alla prova generale, e il risultato fu uno sforamento di 5 minuti. Alla richiesta del ciambellano di tagliare un brano a suo giudizio troppo lungo, Cimarosa rispose che senza quei minuti si sarebbe pregiudicata l’intera opera; insistette così tanto che non rimase che far decidere al Sovrano stesso. Il Re Vittorio Amedeo III , in virtù del “conosciuto merito del maestro”, ordinò che nulla fosse tagliato e l’opera, nella sua interezza, fu rappresentata con enorme successo.

Nel 1785 la sua fama varcò anche i confini d’Italia scrivendo egli una cantata per il Principe Potenkin di Russia intitolata La serenata non preveduta. L’arte di Cimarosa giunse quindi fin nella terra degli Zar e il Paisiello, tornando da quei luoghi, portò un invito prestigioso, proprio quello della Corte di S.Pietroburgo. La Zarina Caterina II, lo attendeva con ansia.

Iniziò un lungo viaggio che tra le sue tappe lo portò a visitare prestigiose corti italiane ed europee, come il granducato di Toscana e il ducato di Parma, a essere ospite gradito e coccolato dell’imperatore Giuseppe II d’Austria e del Re Stanislao di Polonia ai quali regalava la sua arte e la sua musica e da loro riceveva elogi gonfi di ammirazione e regali preziosi.

Giunse infine a S.Pietroburgo, dove Caterina II  lo accolse con tutti gli onori e volle che subito cantasse accompagnato dal suo clavicembalo, perché Cimarosa era anche finissimo cantore, destando un grande entusiasmo in tutti i componenti della Corte russa.
Fu invitato, dietro lauto compenso, ad insegnare musica ai due nipoti dell'Imperatrice.
Scrisse molte opere e diverse cantate, che ottennero tutte enorme successo, fino alla stesura de La Vergine del Sole che rese il nostro compositore assolutamente e definitivamente apprezzato e adorato anche al di fuori della Corte.

In seguito alla guerra tra Russia e Svezia, Cimarosa decise di ritornare in patria, nel tragitto si fermò di nuovo a Varsavia, ma soprattutto a Vienna, dove arrivò nel 1792, un anno dopo la morte di Mozart. La sua fama fino ad allora aveva concorso senza timore con quella del grandissimo compositore austriaco, e fu facile per lui fare breccia nella Corte di Vienna; Leopoldo II lo nominò Maestro di camera Imperiale cedendogli addirittura un appartamento a Palazzo. Ancora il Florimo ci fa notare: “…Tali offerte e tali onori prodigati al Cimarosa ricordano quei tempi felici in cui un imperatore come Carlo V si chinava a terra per raccogliere il pennello caduto di mano a Tiziano, e Papa Giulio II levavasi in piedi all'apparire di Michelangelo…”.

E in questa cornice di simil-adorazione creò quello che è tuttora considerato il suo capolavoro, Il Matrimonio segreto.  
La base fu l’ottimo libretto di Giovanni Bertati, che trasse ispirazione da opere inglesi e francesi come The clandestine marriage di George Colman e David Garrick e Sophie ou le mariage caché di Madame Riccoboni e Joseph Kohaut, a loro volta ispirati dal ciclo di tele Le mariage à la mode del pittore inglese William Hogarth; a questi modelli il poeta italiano apporta una semplificazione e un adeguamento alla tradizione dell’opera comica italiana, smorzando gli elementi di satira sociale, facendo prevalere comunque gli affetti sul calcolo, dando cioè al pubblico dell’epoca ciò che chiedeva da un’opera buffa, il rispetto delle tradizioni.
Cimarosa seguì lo stesso corso, rassicurante per le platee, applicando la classica trama stilistica dell’opera buffa, ornandola, però, con elementi che gli erano propri, la malinconia e la comicità, l’alternarsi di movimenti veloci e lenti accompagnati comunque da suoni caldi, frutto dell’uso di raffinata strumentazione che permette all’opera di godere di un continuo fluire della melodia.

Il risultato fu un successo con pochi uguali al mondo, considerando sia che è l’unica opera italiana del XVIII secolo ad essere quasi ininterrottamente rappresentata fino ai giorni nostri - partendo dalle 110 repliche in cinque mesi che si ebbero a Napoli nel 1793 - e sia che nella Vienna del 1792 accadde un qualcosa che non si sarebbe mai più ripetuto per nessuna rappresentazione: al termine della prima, Leopoldo II fu talmente estasiato da ciò che aveva visto ed udito, che non solo invitò a cena l’intera compagnia, ma, alla fine, chiese che tutti ritornassero a teatro per replicare l’intera opera. Un bis di un’intera opera nella stessa sera. Fatto unico e irripetibile.

Gli anni successivi furono forieri di ulteriori successi e videro la luce opere come L’amante disperato, Penelope, Gli Orazi e i Curiazi, Artemisia Regina di Caria; si giunse così al periodo critico della Repubblica napoletana del 1799, che egli, di idee liberali, appoggiò componendo la musica per l’inno repubblicano di Luigi Rossi. Con il ritorno di Ferdinando IV, la sua casa fu saccheggiata ed il suo amato clavicembalo distrutto, fu incarcerato per quattro mesi e ne uscì solo per l’intervento di ausiliari russi, che, al rifiuto di grazia da parte del Re, andarono personalmente al carcere, per trarlo in libertà.

Lasciò Napoli, non si sa se “invitato a farlo” dal potere di Corte o di sua sponte, e si rifugiò a Venezia dove, stanco e malato, morì nel 1801, lasciando nel mistero la realizzazione della sua ultima opera, Artemisia, detta incompiuta da molti, ma che sembra fosse riuscito a terminare nei suoi due atti e mancato solo di vederla nascere sul palco.
Ancora dal Florimo: “…E' detto da tutt'i biografi che di quest'opera avesse mandato a fine il solo primo atto quando fu colpito dalla morte.
Ma un fatto evidente e contrario a questa assertiva si è che fra gli autografi esistenti nel nostro archivio si rinciene l'Artemisia, compiuta di tutto il secondo atto.
Si deve dunque dedurre che l'improvvisa morte avesse impedito soltanto ch'egli la ponesse in concerto. Questo secondo atto è scritto dello stesso carattere del primo, simile a tutti gli autografi del Cimarosa; ed ha col primo unità di stile e di colorito…”

Domenico Cimarosa scrisse circa un centinaio tra opere buffe, serie e semiserie, farse, cantate e opere strumentali. Si ritiene che molti manoscritti siano nei musei dei teatri russi e delle Corti di mezza Europa, ancora da riscoprire. Ma tutto questo non ha contribuito alla giusta e dovuta divulgazione ai posteri della sua effettiva grandezza.

E’ infatti considerato il maggior musicista italiano del Settecento e tra i primi al mondo, gli sono riconosciuti una grande originalità delle idee e spiccata capacità di immaginazione, colpiscono la ricchezza degli accompagnamenti, la grazia degli effetti scenici, principalmente nel genere buffo, e una grande spontaneità tanto da far sembrare le sue opere come scritte di getto.
Sono considerate proprie della sua arte una certa psicologia femminile, molta ironia, galanteria, sensibilità e un manierismo settecentesco che gli valgono l’essere una spanna sopra quasi tutti i suoi contemporanei e compatrioti come Paisiello e Piccinni e l’accostamento con le vette di Amadeus Mozart.

E questa “sfida”, a volte addirittura vinta con uno dei mostri sacri della musica universale è fonte di numerosi aneddoti, tra i quali ci piace ricordare quello di Napoleone che chiese ad André Grétry la differenza tra Cimarosa e Mozart, con il compositore belga che, pronto, rispose: “Cimarosa mette la statua sul teatro ed il piedistallo nell'orchestra, laddove Mozart mette la statua nell'orchestra ed il piedistallo in teatro” , volendo quindi metterli sullo stesso piano, con l’italiano ritenuto più attento al canto e l’austriaco agli strumenti.
E anche sapere che Gioacchino Rossini professasse un vero culto per entrambi è punto di orgoglio e di onore per questa terra, la nostra, che diede a questo suo figlio, nonostante gli elogi e l’ammirazione dei potenti di tutta Europa, la capacità di mantenere la sua umiltà, e la sapienza di non tradire mai le sue misere e sofferte origini.

Su questo, degna conclusione la lasciamo allo scritto di Francesco Florimo che ci è stato così prezioso nel comprendere a fondo questo grande compositore mai troppo elogiato, parole a cui non c’è bisogno di aggiunger altro:
“…Si citano alcuni tratti di modestia che onorano di molto il Cimarosa.
Un giorno un pittore gli disse che lo riguardava come superiore al Mozart.
Egli s'impazientì e risposegli: "Io, signore? ... Oibò!!! Che direste voi ad un uomo che fosse impertinente e temerario tanto da venire ad assicurarvi che voi superate Raffaello?"…”
17/12/2009
  
RICERCA ARTICOLI