Cultura
Vincenzo Stinga espone a Villa Fiorentino
Paesaggi costieri e giardini dell'anima
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Dal 28 Maggio al 29 Giugno espone a Villa Fiorentino il pittore Vincenzo Stinga di origini sorrentine, ma romano di adozione. La sua è una mostra antologica che ripercorre i cinquant’anni di carriera artistica lì da dove era partito per la sua esperienza professionale e umana, con l’obiettivo di fermare nel tempo emozioni, sensazioni e stati d’animo.
Espone qui un percorso rappresentativo della sua arte, dopo aver esposto in diverse città italiane e straniere e raccolto lusinghieri apprezzamenti tra cui ricordiamo: Paolo Ricci, Massimo Bignardi, Dario Micacchi, Gino Grassi, Lorenza Mazzetti, Gianni Toti, Edoardo Cintolesi, Michele Prisco, Bernard Vadon. Oltre cento le opere di grandi e medie dimensioni esposte nell’Ottocentesca dimora sul Corso Italia a Sorrento, che con ingresso libero, si potrà visitare tutti i giorni, festivi compresi, dalle 10 alle 13 e alle 17 alle 21.
Un percorso artistico che la critica d’arte Anna Villari così illustra nel catalogo della mostra:
“Incanta la pittura di Vincenzo, proprio perché si muove tra la chiarezza delle forma, la assoluta realtà del dato e del dettaglio, la nitidezza smagliante e quasi feroce dei colori, e quel mondo fluttuante, problematico, indefinito, doloroso alle volte che è il mondo della memoria, personale e storica, del confronto con l’esterno e con se stessi… …La libera ricerca di “semplicità complesse”, come le chiama lui, si muove tra le sollecitazioni del presente, in anni di impegno personale e collettivo, di politica viva, e le eredità del passato artistico più o meno vicino: eredità credo non sempre consapevoli, ma alle volte quasi magicamente istintive, intuite…
Siamo ai primi anni sessanta, le sue tele sono sfavillanti, la pittura à plat esalta le splendide nature morte: nella Natura morta del 1963, una lezione che ci appare discendere direttamente da Cezanne appare addirittura vitalizzata nella pienezza, veramente mediterranea e fisica, del colore; in Sedia nello studio, del 1964, la limpidezza dei toni e della linea è quasi donghiana, audaci e senza padri invece gli accostamenti cromatici, viola marrone giallo bianco di una nettezza accecante. Altrettanto forti, assoluti, gli esterni, come la Grande cabina a Marina Piccola, del 1960, dove sembra di percepire, e quasi ci sentiamo degli intrusi, il silenzio dell’ora, la quiete vibrante e pronta a mutare del momento, che sia l’alba l’istante del tramonto…
…Negli anni in cui si distrugge ovunque per far posto a nuove costruzioni, la speculazione appare tanto più violenta in un paese paesisticamente felice come Sorrento, e il tema dei giardini (sul quale hanno scritto sensibilmente Michele Prisco e Edoardo Cintolesi) invade come “una specie di mania” la pittura di Vincenzo; ancora una volta, osservazione, natura, e insieme memoria, che diventa magia, antico che si riaffaccia alla modernità, mito.
…Giardino anch’esso, da preservare, custodire, ci appare il tema della vita domestica (Maria Pia, i figli Luigi e Francesca), la famiglia come luogo reale e sognato, di presente e di futuro. Nei quadri dei primi anni Settanta, gli interni domestici – le camere, ma anche lo studio dell’artista - sono stanze che si aprono le une sulle altre, spesso con scorci di finestre, di esterno, svelando momenti intimi e quotidiani; appena intraviste, sono dimensioni private, luoghi di esperienza e di creazione, ma, appunto, aperte, pronte a ricevere noi, il nostro occhio, o quanto si offre al di là di un vetro…
…la sperimentazione e il ricordo di tecniche e pratiche continua anche nella pittura da cavalletto, con echi di pointillisme e di divisionismi postimpressionisti (Ricordo del matrimonio in giardino, 1998-99, in cui anche il tema, il momento, sembra ricordare certa pittura francese e italiana di secondo Ottocento, si pensi ad alcune tele di Giuseppe De Nittis, come questa invase di luce).
…Ecco, la pittura come scoperta, indagine, esercizio, specchio di sé, e insieme “gioco della memoria”, confronto fertile, dialogo ininterrotto con il passato, che parla ancora e vive. E Vincenzo gioca e continua a giocare, facendosi pittore, decoratore (l’uno e l’altro, come in una bottega quattrocentesca, come per un artigiano del Settecento), disegnatore…guardando, avvicinando a sé passato e storia, o avvicinandosi lui stesso a storie, luoghi, personaggi, episodi, con il suo occhio vivacissimo e acuto, con il suo fare antico.” (n.e.)
La pittura di Vincenzo Stinga compie cinquant’anni
Introduzione critica del catalogo della mostra di Sorrento di Anna Villari
Vincenzo, proprio in questi giorni, qualcuno in più, e attraverso questa raccolta il suo modo di guardare si presenta a noi – e forse anche a Vincenzo stesso - in tutta la sua completezza, e nella semplice, commovente verità di un percorso pluridicennale che finalmente, nel raccontarsi, si scioglie e si fluidifica.
Vincenzo dunque, questa volta, si mostra e si racconta insieme, e deve essere stato questo un traguardo, forse una fatica, per lui così schivo, dal punto di vista umano e a ben pensare anche da quello artistico, pittore com’è tanto limpido nella tecnica e nel disegno quanto da decifrare, da sciogliere nei suoi inquieti “arravogliamenti”, nelle sue dichiarazioni ritrose.
Incanta la pittura di Vincenzo, proprio perché si muove tra la chiarezza delle forma, la assoluta realtà del dato e del dettaglio, la nitidezza smagliante e quasi feroce dei colori, e quel mondo fluttuante, problematico, indefinito, doloroso alle volte che è il mondo della memoria, personale e storica, del confronto con l’esterno e con se stessi.
Visto che sono cinquant’anni, e che l’importanza della scadenza esige rispetto, facciamola, un po’ di storia, ripercorrendo le parole e le opere che lo stesso Vincenzo qui, con il suo narrare piano, pacato, consapevole, ci offre. Il racconto comincia con la Scuola d’arte (parallelamente alle prime esperienze “di bottega”), con le prime ricerche autonome sulla via della figurazione, negli anni dell’acceso dibattito tra astrattismo e figurazione, con il ritrovarsi in un modello grazie ad una ricchissima ed eterogenea mostra di pittura americana (da Avery, Hopper, Levine, a De Koonig, Pollock, O’Keefe, Rothko) tenutasi a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e poi alle contemporanee sperimentazioni del cinema e della fotografia.
La libera ricerca di “semplicità complesse”, come le chiama lui, si muove tra le sollecitazioni del presente, in anni di impegno personale e collettivo, di politica viva, e le eredità del passato artistico più o meno vicino: eredità credo non sempre consapevoli, ma alle volte quasi magicamente istintive, intuite.
Siamo ai primi anni sessanta, le sue tele sono sfavillanti, la pittura à plat esalta le splendide nature morte: nella Natura morta del 1963, una lezione che ci appare discendere direttamente da Cezanne appare addirittura vitalizzata nella pienezza, veramente mediterranea e fisica, del colore; in Sedia nello studio, del 1964, la limpidezza dei toni e della linea è quasi donghiana, audaci e senza padri invece gli accostamenti cromatici, viola marrone giallo bianco di una nettezza accecante. Altrettanto forti, assoluti, gli esterni, come la Grande cabina a marina piccola, del 1960, dove sembra di percepire, e quasi ci sentiamo degli intrusi, il silenzio dell’ora, la quiete vibrante e pronta a mutare del momento, che sia l’alba l’istante del tramonto.
Insolito per la fase, prevalentemente cerebrale e sperimentale che attraversa la pittura italiana, si percepisce un rispetto amoroso per il “mestiere”, colore e tecnica; lo dice la varietà dei supporti e dei materiali utilizzati in questi anni, tavola, tela, cartone, masonite, olii e tempere grasse; quando, racconta Vincenzo, comprava materiale - dimostrando così padronanza e esercizio continuo del fare- in una noto negozio di cose d’arte vicino all’Accademia di Belle Arti di Roma, i commessi pensavano facesse il restauratore; incredibile, il pittore dipinge!
Ma continuiamo a ripercorrere il racconto: a partire dalla Tarantella di Zì Ntonio del 1963, dipinto per il ristorante romano prediletto dal pittore e dai suoi amici (l’amicizia e l’importanza dei rapporti, delle condivisioni e degli scambi affettivi ed intellettuali scandisce il narrazione, e quindi la vita professionale, sociale e personale dello “schivo” Vincenzo e di sua moglie Maria Pia), nasce il “desiderio di dialogare con il pubblico”. Una volontà e capacità di confronto, che probabilmente da questo momento troverà espressione anche nel lavoro di insegnante, svolto con entusiasmo, vicino ai ragazzi, per la prima coinvolti e resi consapevoli che l’arte può essere strumento di cultura viva.
Alla fine degli anni Sessanta, il desiderio di sperimentazione (“senza tradire se stesso”) porta Vincenzo a provare anche i linguaggi della grafica e della pittura contemporanea (l’uso della fotografia che documenta e fissa), ma ancora una volta ricordando - o forse è solo una memoria inconscia di cui gli artisti, miracolosamente, serbano impronta?- le ricerche e i traguardi del Novecento. Ecco allora inserimenti di motivi geometrici nelle figurazioni, incastri e sovrapposizioni di piani; in Vico Equense del 1967, l’uso di lettere dentro l’immagine, il tram che si smaterializza, fanno pensare a scomposizioni futuriste, ne Il Gallo del 1968, si avvertono quasi echi cubisti.
Negli anni in cui si distrugge ovunque per far posto a nuove costruzioni, la speculazione appare tanto più violenta in un paese paesisticamente felice come Sorrento, e il tema dei giardini (sul quale hanno scritto sensibilmente Michele Prisco e Edoardo Cintolesi) invade come “una specie di mania” la pittura di Vincenzo; ancora una volta, osservazione, natura, e insieme memoria, che diventa magia, antico che si riaffaccia alla modernità, mito.
Giardino anch’esso, da preservare, custodire, ci appare il tema della vita domestica (Maria Pia, i figli Luigi e Francesca), la famiglia come luogo reale e sognato, di presente e di futuro. Nei quadri dei primi anni Settanta, gli interni domestici – le camere, ma anche lo studio dell’artista - sono stanze che si aprono le une sulle altre, spesso con scorci di finestre, di esterno, svelando momenti intimi e quotidiani; appena intraviste, sono dimensioni private, luoghi di esperienza e di creazione, ma, appunto, aperte, pronte a ricevere noi, il nostro occhio, o quanto si offre al di là di un vetro.
Negli anni romani, dopo il trasferimento del 1975, ricchi di incontri e di impegno, il “ritorno alla pittura”, sotto forma di “citazionismo”, “neomanierismo”, “neometafisica”, diventa tendenza, oggetto di mostre. Vincenzo, che non deve ritornare a nulla, che è da sempre “dentro” la pittura, entra in contatto con la cosiddetta “pittura colta” o “anacronista” di Franco Piruca, nel quale ritrova un analogo sguardo tra il simbolico e il metafisico, e assiste – ritroso com’è, ma in un clima generale di amicizia e collaborazione che gli è congeniale - ad alcune delle attività espositive di gallerie come La Tartaruga, a via del Babuino, nella quale già alla fine degli anni Cinquanta era stata mostrata al pubblico la pittura americana (in una mostra del ’59 erano presenti opere di Twombly, Kline, Rauschenberg, Rothko a altri) e che presentava allora poesia visuale e artisti quali Spalletti Parmiggiani Agnetti, o Il Trifalco, presso la quale espone anche alcune sue opere.
Un rinnovato interesse per la materia pittorica, la volontà di superare la passata propensione per una pittura “neutrale”, “fredda” (così scrive Vincenzo, ma ho qualche obiezione, se mi è lecito, perché è un freddo “bollente” quello che traspare da alcune sue opere di questi anni, pur tecnicamente controllatissime e impeccabili), insieme alla riflessione sulla figura della madre, significano per Vincenzo, a partire dall’Autoritratto con genitori del 1977, un nuovo coinvolgimento emotivo; la personale “rivisitazione del romanticismo”, è un percorso dentro se stesso e dentro la propria crescita attraverso la riscoperta di luoghi anche minimi, di oggetti, di luci della casa materna.
Percorso che, in quella profonda adesione e immedesimazione che Vincenzo ha sempre sentito nei confronti della sua terra, conduce all’inizio degli anni Ottanta al progetto pittorico su Sil’vestr Scedrin, incoraggiato da Gregorio Sciltian, che segna ancora una volta un momento di dialogo con il passato (la pittura di un russo dell’Ottocento innamorato, fino a morirvi, del Mediterraneo e di Sorrento), e la critica apertura ad inesplorati “luoghi dell’anima”, che se sfuggono al controllo razionale, introducono ad un nuovo, fecondo ascolto di sé. Il mito, le sirene, i centauri, le visioni, le presenze magiche che erano state di Scedrin e che ora entrano nell’immaginario di Vincenzo, lasciano una traccia problematica all’interno della sua visione interiore, eppure, stranamente, attingere al magico gli rende forse più facile, a lui che ha sempre avuta un anima da poeta calato dentro la realtà e nello stesso tempo, poeticamente, staccato da essa, comunicare con l’esterno.
Dopo Scedrin, la commissioni di grandi decorazioni permette ancora una volta a Vincenzo di dialogare con la storia della pittura italiana. Tra presenze archeologiche e misteriose, aperture sul mare luminoso e su giardini, citazioni di materiali (marmi, arazzi), inserimenti giocosi di oggetti apparentemente estranei, si affacciano, nelle pitture sorrentine per il Palazzo Italmare, per l’Hilton Sorrento Palace (affiancato dal figlio Luigi), per l’Hotel Europa e l’Hotel Syrene, fino alla Casa Angelina di Praiano, del 2005, citazioni dal Barocco, dall’antichità, dalla pittura decorativa degli anni Trenta (Gino Severini per esempio, e quanto può aver visto sulle riviste “Casabella” e “Domus” che aveva guardato da ragazzo), dall’architettura bizantina, mentre già nella decorazione del Cinema delle Rose, nel 1970, la visione a 360 gradi aveva riproposto la pratica, ormai assolutamente desueta, dei grandi “panorama” ottocenteschi, piena affermazione di certezze positive. Ma la sperimentazione e il ricordo di tecniche e pratiche continua anche nella pittura da cavalletto, con echi di pointillisme e di divisionismi postimpressionisti (Ricordo del matrimonio in giardino, 1998-99, in cui anche il tema, il momento, sembra ricordare certa pittura francese e italiana di secondo Ottocento, si pensi ad alcune tele di Giuseppe De Nittis, come questa invase di luce).
Ecco, la pittura come scoperta, indagine, esercizio, specchio di sé, e insieme “gioco della memoria”, confronto fertile, dialogo ininterrotto con il passato, che parla ancora e vive. E Vincenzo gioca e continua a giocare, facendosi pittore, decoratore (l’uno e l’altro, come in una bottega quattrocentesca, come per un artigiano del Settecento), disegnatore (le tarsie lignee del Duomo di Sorrento poi eseguite da Peppe e Franco Rocco), guardando, avvicinando a sé passato e storia, o avvicinandosi lui stesso a storie, luoghi, personaggi, episodi, con il suo occhio vivacissimo e acuto, con il suo fare antico.
L’artista è sorridente, garbato, ironico, ma solitario, e parla – per giunta a bassa voce - la sua lingua, come è sempre stato. Dunque grazie, Vincenzo, per averci parlato limpido come la tua pittura, e averci raccontato, questa volta, ancora un’altra storia: la tua.
Anna Villari
Scheda:
Mostra antologica di
Vincenzo Stinga
Villa Fiorentino, Sorrento
Corso Italia 53 - 0818782284
dal 28/5 al 28/6/2009
Orari 10-13/17-21
Ingresso libero
Con il Patrocinio del Comune di Sorrento e
della Fondazione Sorrento
Catalogo della mostra stampato grazie al
contributo della Belmare Travel Sorrento