Cultura
Andrea Belvedere l'ultimo dei fioranti napoletani
di Achille della Ragione
Fig. 1
Andrea Belvedere (Napoli 1652 circa - 1732) che prosegue la tradizione mai interrotta dei migliori fioranti napoletani prendendo spunto da ognuno degli epigoni: dal Porpora l'iconografia dei soggetti, da Giuseppe Recco la chiara lucidità di analisi e di resa ottica, da Giovan Battista Ruoppolo il gusto dell'enfasi decorativa.

La sua è una pittura gioiosa, percorsa da una sottile vena di malinconia, che ben si esprime nell'aspetto dimesso ed impaurito di alcune sue creazioni; egli rifugge sdegnato dalle grandiose cascate di fiori e di frutta dei suoi contemporanei, dai prorompenti trionfi empi di prosopopea, per focalizzare la sua indagine nella intima vitalità che scaturisce dal mondo vegetale in una gioiosa vibrazione di colori e di luce.

Fiorante originalissimo, è il più genuino interprete dell'eredità caravaggesca che sa trasfondere e sublimare con tocchi di eleganza e finezza interpretativa, «con i quali avvertiamo distintamente che verità e sincerità di pittura sono diventate talento raffinato, genio del prezioso, del raro e dello stupefacente, graziosa o spettacolare finzione» (Volpe).

Egli traghetta dolcemente la pittura di genere dalla solida corposità della nostra migliore tradizione ad una sensibilità nuova, ad una leggerezza rocaille, che è il segno più tangibile dei tempi nuovi, con un prodigio di sottigliezze visive e di vibrante naturalezza.
Acuto osservatore, si dimostra aggiornato sugli esiti più recenti della pittura europea: dalle più antiche esperienze di Juan de Arellano, ai prodotti dei principali generisti francesi e tedeschi, attivi a Roma negli ultimi decenni del secolo. I suoi saldi riferimenti, che cerca di eguagliare e superare, sono Jean Baptiste Monnoyer, Franz Werner Von Tamm e Karel Von Vogelaer, gli ultimi due più conosciuti come «Monsù Duprait» e «Carlo dei fiori», che il Belvedere traduce in spiritosa parlata partenopea con accenti personalissimi.

Su questa gara a distanza nei riguardi di questi illustri specialisti stranieri, obiettivo traguardo di sincera emulazione, ci soccorre il racconto del De Dominici, che del pittore, suo contemporaneo, era oltre che estimatore anche grande amico: «sicché datosi a far nuove fatiche sul naturale dei fiori, e massimamente sulle fresche rose, che arrivò a dipingere con un’incomparabile tenerezza, pastosità di colore, e sottigliezza di fronde, che rivoltate fra loro, e con la brina al di sopra, dimostra non essere dipinte ma vere, e così gli altri fiori tutti, che son mirabili nel gioco delle foglie; e nell’intreccio semplice, ma pittoresco dell’insieme dove essi sono situati; accompagnati poi con pochi lumi, o con un accordo meraviglioso».

Ed i risultati di questa severa applicazione sono sotto i nostri occhi, grazie alle sue tele pervenuteci che conservano intatte la gioia dei colori e l’audacia dello slancio creativo «con una grazia arcadica, sbattere d’ali bianche, travolgenti tormente di petali, esplosive eruzioni di corolle e corimbi, di viticci e polloni» (Causa).

Grazie all’interessamento del Giordano, il nostro pittore si recò in Spagna, dal 1694 al 1700, a rinnovare la gloria della nostra tradizione che Giuseppe Recco troppo brevemente aveva portato alla corte del re Carlo II. Al suo ritorno a Napoli egli abbandonò il mondo della pittura per dedicare tutte le sue energie alla sua nuova passione: il teatro.
Il catalogo del Belvedere che comprende numerose tele siglate o documentate è discretamente ampio, anche escludendo quella marea di dipinti che sul mercato abili antiquarî cercano di far passare per autografi.

Un nucleo consistente di quadri è conservato nel museo Correale di Sorrento, come Fiori, frutta e anatre (fig. 04) o Fiori e grande conca di rame; nel museo Stibbert di Firenze si trova Fiori attorno ad un’erma, mentre a palazzo Pitti vi è un delizioso Anatre e fiori(fig. 03) Famosissime le due coppie di pendant Bottiglia con garofani e Bottiglia con tulipani del museo di Capodimonte e del museo Correale ed i due monumentali Vasi di fiori(fig. 015 - 016)del Prado, siglati con il monogramma; singolare una tela di Pesci (fig. 02) del museo di San Martino, un soggetto inusuale nella sua trattazione, rifinito con delicatezza di esecuzione che fa già presagire le dolcezze settecentesche, «un’incipriata galanteria gastronomica» (Causa) nel fluente filone delle composizioni marine. Ed infine il suo capolavoro già lodato dal De Dominici e del quale conosciamo anche l’antica collocazione nella casa del celebre avvocato ed erudito Giuseppe Valletta a Napoli. Si tratta della tanto decantata Ipomenee e boules de neige(fig. 01), a lungo conosciuta come Ortensie, una tela ricca di sfumature cromatiche che ci dona un senso di pacata serenità d’animo ed una propensione ad apprezzare le meraviglie della natura, che si manifestano con precisione anche nei minimi dettagli.
Con la rinuncia del Belvedere ai piaceri della pittura si chiude il secolo e dietro di lui una folla di fioranti facili e svelti di mano ed una torma di imitatori fanno ressa su un mercato molto florido, dove alcune richieste, scaduto il gusto dei committenti, si esaudiscono a metraggio.

Tra i successori entro il finir del secolo alcuni nomi vanno ricordati come Giuseppe Lavagna (? - Napoli 1724), oscuro generista segnalato dal De Dominici, il quale, dopo aver menzionato il suo alunnato presso il Belvedere descrive il suo stile: «ingrandì un po’ soverchio i suoi fiori e gli dipinse con più libertà», Gaetano De Alteris, pittore di fiori e di frutta, famoso medico, oltre che artista dilettante, di cui danno scarse notizie il De Dominici ed il Giannone, don Ferdinando Fusco, altro nome senza opere, ancora da riscoprire, e l’ancora sconosciuto Francesco Bona, sul quale ha fornito alcuni contributi il Bologna. Vi è poi quella fitta schiera di seguaci, alcuni particolarmente meritevoli, che conducono la fiaccola del genere in pieno Settecento e che noi, per i limiti cronologici che ci siano posti per questa opera, citiamo di sfuggita: Francesco Lavagna, discendente di Giuseppe, Nicola Casissa di recente rivalutato dagli studiosi, Giorgio Garri a capo di un’altra dinastia di generisti con il fratello Giovanni e la figlia Colomba, Gaspare Lopez, che prosegue stancamente le tematiche del Belvedere con più spenti accenti espressivi, Tommaso Realfonso, il famoso Masillo che gode di particolare prestigio per alcune sue notevoli opere, Baldassarre De Caro, rampollo di un’altra nobile dinastia, mediocre ripetitore di iconografie olandesi, dotato nella rappresentazione di animali e di selvaggina ed infine Giacomo Nani, con il figlio Mariano, che chiudono una gloriosa tradizione che si spinge fino alle soglie dell’Ottocento.

La vicenda della natura morta nel corso del secolo d’oro della pittura napoletana è come abbiamo visto storia intricata, fitta di avvenimenti, di pittori, di risultati. Le zone di buio sono ancora molto ampie, anche se gli studi, come vigorosi colpi di accetta, hanno lentamente aperto una vistosa breccia, da cui sempre più vengono fuori e circolano luce e notizie. Molti sono gli interrogativi e le personalità ancora misteriose, oggi indicate sotto la convenzione di monogrammista o di «maestro di», mentre famosi personaggi, citati da biografi e dai documenti, da Turcofella, ad Ambrosiello Faro ed Angelo Mariano sono ancora alla ricerca delle loro opere.
La grande confusione delle sigle, buone per più autori, per colmo di sfortuna con le stesse iniziali, ha contribuito maggiormente alle indecisioni.

Negli ultimi anni il settore ha goduto di un notevole impulso di mercato ed a ruota si è risvegliato un certo interesse da parte degli studiosi, ma non molti progressi in verità si sono registrati in questi ultimi trent’anni da quando nel 1972 Raffaello Causa concludeva, con considerazioni simili, la sua impareggiabile esegesi sullo stato degli studi intorno alla natura morta napoletana.

11/6/2008
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