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Il mondo di Galeone
di Mimmo Carratelli (da: Corriere dello Sport del 06.02.2019)
La sera andavamo a Pescara. Da Napoli, tre ore e mezzo di macchina veloce, aggredendo i tornanti di Roccaraso e adagiandoci sul tratto finale in pianura dopo avere superato il fiume, le trote e i gamberi d’acqua dolce di Popoli.

Vivevamo un calcio di formidabili narratori. Lo erano stati Nereo Rocco e Bruno Pesaola, anche il mago Herrera a suo modo. Andavamo a Pescara da Giovanni Galeone, l’ultimo incantatore del pallone.

L’appuntamento era da “Eriberto”, lo chalet-ristorante sul lungomare. Diceva: “Trecento metri di corsa, chi arriva ultimo paga”. Poi pagava sempre lui, Giovanni Galeone, un uomo del Tirreno e di Bagnoli che aveva finito per trovare il suo mare dall’altra parte, sull’Adriatico perché, a Pescara, era diventato l’imperatore di Pescara.

Faccia bruna intarsiata di rughe da simpatico gaglioffo francese, capelli mesciati dal sole, fumatore accanito di Marlboro Rosse, appassionato di jazz (nella sua casa di Francavilla al Mare girava sempre un disco di Jelly Roll Morton, il pianista di New Orleans), lettore di Camus e Sartre, bevitore di champagne “quando me lo posso permettere, altrimenti un prosecco o una spuma”, allenatore per 33 anni, dal 1974 al 2007, e, soprattutto, mago del pallone, anfitrione, affabulatore e padrone nella magica Pescara fra gli Ottanta e i Novanta.

Era la Pescara di Galeone e di Manuel Estiarte, l’asso spagnolo della pallanuoto. L’appuntamento era allo chalet di Eriberto Mastromattei che piantò le prime palme sul lungomare e aveva un leoncino sotto una palma vicino al suo ristorante dove Michele Cicchini, il cuoco, preparava fantastiche “chitarrine al sugo di pesce”.

Galeone era il re incontrastato di una banda di scatenati viveur tra i quali Gianni Pilota, che ospitava Ayrton Senna nella sua villa pescarese, e Gianni Santomo, collezionista di cimeli di D’Annunzio e di tremila cravatte, aereo personale dopo che fece fortuna aprendo 180 negozi Benetton nel centro-sud. Gli altri erano Fefè D’Annibale e l’elegantissimo Valerio Santilli con negozio di articoli sportivi.

Una volta, sulla spiaggia, fecero l’alba i giocatori della nazionale brasiliana dopo la partita d’addio di Leo Junior che è stato tra i giocatori di Galeone con Massimiliano Allegri e Gian Piero Gasperini. La vita notturna a Pescara girava attorno alla Birreria di Ivan Malaspina. Uno spudorato di Lanciano, Pasqualino, raccoglieva le puntate delle scommesse clandestine.

Un mondo scomparso, una favola da raccontare oggi che il calcio non è più favola, ma corsa e milioni di euro, pressing e marcature a scalare, selfie, 4-3-3, 4-2-3-1, un pallone quantistico, l’albero di Natale e l’uovo di Pasqua.

Che cosa si racconterà del calcio di oggi? Siamo stati dei privilegiati ad avere vissuto un mondo di adorabili canaglie, di partite anema e core, di calciatori ai quali ci lega ancora un grande affetto, di allenatori che non avevano la spocchia televisiva di oggi e ci raccontavano il pallone, i nostri Fratelli Grimm, i nostri Hans Christian Andersen, i nostri Jonathan Swift di notti infinite di whisky e racconti.

Galeone, fra Tocai e orate, ne aveva da raccontare perché la sua vita piena e appassionata era tutta da raccontare. Quel suo mondo pescarese quando aveva sfidato il radiocronista di rugby e assessore al traffico Domenico Marcozzi a tirare cento rigori in una notte di luna allo stadio di Pescara, quando spostava gli orari degli allenamenti per andare in barca raggiungendo la Croazia in quattro ore sul gommone di Anna Catone e quando il sindaco Piscione lo volle all’inaugurazione della nuova stazione ferroviaria.

Giovanni Galeone, nato a Bagnoli in via Lucio Silla, padre ingegnere all’Italsider, andò via da Napoli a nove anni, il padre trasferito in altre sedi, Trieste la prima volta. Calciatore capellone e battitore libero, dalla Ponziana all’Udinese, si ribellò all’allenatore Lamanna che gli imponeva tutti i santi giorni di mangiare riso e bistecca, la dieta calcistica di quegli anni. Detestava il riso. Allenatore per destino e ispirazione.

Cominciando a Udine nel 1974. Girovagando, fermandosi più a lungo a Pescara. Passando per Perugia dove i ladri gli rubarono 25 milioni nascosti sotto la legna accanto al caminetto nella casa che aveva a Lacugnana sulla collina sovrastante lo stadio Curi. Concludendo la carriera a Udine nel 2007.

Il mio Pescara – diceva. – Nessuno gioca come il mio Pescara. Ho un gioco nuovo che sbanca. I miei centrali di difesa respingono il pallone con le mani in tasca. Eleganti, sicuri. Non esaspero fuorigioco e pressing come Sacchi. Presso solo quando posso conquistare la palla in una zona importante del campo. Se vai a pressare chi sa palleggiare, chi sa spostare la palla e ti fa correre, finisci con la lingua fuori e ti frega in contropiede. Sacchi esalta l’orchestra, io preferisco un Pollini al piano che non legge lo spartito”. Il milanese Maurizio Pollini era un grande pianista di quegli anni.

A Pescara, i giocatori si ritrovavano da Manuel in via Sulmona e nel negozio di Enzetto. In Piazza Salotto, il profumo degli oleandri stordiva. Città giovane, movida in grande stile. Deborah Marino l’organizzava all’Honeypot, al Niagara, al Lenny.

Nel Pescara giocava Massimiliano Allegri, “il bel fighino di Livorno” beccato dal fotografo Alessio Di Brigida abbracciato sulla spiaggia a Vanilla Passariello, uno schianto di ragazza pescarese. A Pescara, “da papà Galeone”, si rifugiò Max il giorno in cui mandò a monte il matrimonio con Erika, il primo amore nato sul porto di Livorno.

Era tutto pronto, padre Ermenegildo aspettava in chiesa. Poche ore prima della cerimonia, Max disse a Erika, in ascensore, che non se la sentiva, era meglio non farlo. Lei gli svenne tra le braccia. Erano stati fidanzati per sette anni, da quando ne avevano diciassette.

Col suo Pescara, appena promosso in serie A, anno 1987, a Napoli impazzava Maradona, Galeone andò a battere l’Inter del Trap a San Siro (Zenga, Bergomi, Passarella, Altobelli). Un gol su rigore lo segnò Sliskovic, gran bosniaco con un baffo staliniano.

Raccontava Galeone: “Gli slavi hanno un rapporto musicale col pallone, anche con le mani, nel basket, nella pallanuoto. Un giorno Junior mi disse: mister, se giocassi bene come Sliskovic, sarei pieno di miliardi. Una volta Sliskovic sparì per un giorno intero. S’era imboscato con una cantante dalle grandi tette. Non mi interessa la vita privata dei miei calciatori. Non faccio il guardiano delle mucche, né posso fare il giro dei night e delle discoteche”.

A Galeone piaceva fare il bagno di notte e, di notte, usciva a pesca di granchi rossi col catamarano dell’amico Raffaele D’Annibale incappando una volta in un mitico naufragio.

Da bambino, a Napoli, dove giocava per strada con la palla di pezza, leggendaria “sfera” degli anni di guerra, si tuffava a Coroglio dal pontilone fra i pilastri della Montecatini.

Maradona l’avrebbe voluto allenatore a Napoli. Lo chiese a Ferlaino, ma non se ne fece niente. Ci venne in una annata sbagliata, nella balorda stagione dei quattro allenatori (1997-98). Riuscì a spremere una sola vittoria in 15 partite da una banda azzurra allo sfascio.

Diceva: “Niente ruoli fissi, spazio alla fantasia. Ho sempre ammirato il calcio d’attacco e di destrezza. Ho sempre tifato per le cicale. Non bisogna essere concentrati per novanta minuti, basta essere rilassati. La concentrazione serve quando la palla è tra i piedi degli avversari, quando l’abbiamo noi occorre essere rilassati e tranquilli. Nel calcio, è difficile insegnare l’allegria. Perché la mia squadra renda al massimo, io ho bisogno di essere felice, di avere la mia follia, il mio manicomio”.

Leggeva Sartre e Camus in francese. Si fantasticò che un giorno andasse in panchina con una raccolta di poesie di Jacques Prevert. Ma era vero che litigasse con la moglie, professoressa di lettere, sull’interpretazione di certi versi di Leopardi. Dalla madre Dorina, una bellissima reggiana, appassionata di ballo, aveva preso la passione per l’opera lirica.

Ho vissuto a Trieste, Genova, Pescara. Sono un uomo di mare. Devo avere spazi davanti, devo sentirmi libero. Libero di capire, soprattutto”. Così dice. Non sembra invecchiato sotto la corteccia di mare e di sole. Il calcio d’oggi lo guarda “da lontano”.

Adesso il mondo di Galeone è il mare. Il pallone resta a riva, sotto un ombrellone chiuso.

7/2/2019
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