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C’era la Juve e uno stadio non bastò
di Mimmo Carratelli (da: Corriere dello Sport del 14.09.2018)
Avvinti come l’edera. Cozze attaccate allo scoglio di una immensa passione. Pigiati, pressati, bagnati. Vi racconto l’epopea del Vomero, la stadio sulla collina, paradiso e inferno ai tempi di Formentin e Verrina, Pretto e Rosi, Gramaglia e Barbieri, Jeppson, Vinicio e Pesaola.

Quando eravamo in cinquantamila, debordanti e straripanti sugli stretti gradini di cemento, borghetti, caffè borghetti, senza contare i cento e cento pericolanti sui balconi dei palazzi circostanti. La guerra era finita. Ci restavano il pallone e quella musichetta allo stadio “dove sta zazà”.

Uno stadio troppo piccolo per una passione tanto grande. I giri di campo di Giosuè Cuomo il trombettiere, il ciuccio e il barbiere di Posillipo in parata sulla pista d’atletica, Lauro seduto in panchina con i polpacci al sole. Gloria e baldoria.

Quel pomeriggio del 20 aprile 1958. Il Vomero era un cantiere aperto, lavori in corso per il prolungamento di via Scarlatti che sarebbe diventata via Cilea. Funicolari e tram. Andammo allo stadio per vedere la Juventus di Boniperti, Charles e Sivori.

Eravamo troppi. Scendemmo in campo, ai bordi del campo. Concetto Lo Bello, invocato ironicamente a Firenze “duce, duce”, si avvicinò impettito: “Se vi muovete, sospendo la partita”. Ci puntò una invisibile lupara. Boniperti, con la folla di cinquemila eccitati attorno al terreno di gioco, dette l’assenso a iniziare la partita, gran signore.

Vincemmo 4-3 col gol di Gino Bertucco all’88’ anticipando di dodici anni il 4-3 dell’Italia a Città del Messico. Allo stadio eravamo il popolo più focoso del mondo. Il “salotto affollato” di quel Napoli-Juve fece sensazione e fu un’eccezione.

Ci ribolliva il sangue per tanti motivi, non solo calcistici. Contro il Bologna, tre anni prima, non eravamo stati gran signori per il rigore oltre il recupero assegnato ai bolognesi dall’indimenticabile arbitro Maurelli, un marchigiano. Scendemmo sul prato, ma fu per abbattere i pali delle porte e battagliare con la polizia facendoci scudo con i cartelloni pubblicitari. Fioccavano le squalifiche del campo.

Dal Vomero a Fuorigrotta per lo stadio dei “centomila cuori” esaltati da una canzoncina all’epoca di Roberto Fiore con la squadra di Sivori e Altafini. Sicuramente fummo oltre gli 89.992 spettatori del ticket ufficiale dell’incasso per la maledetta partita-scudetto persa col Perugia (1979) e fummo in 90mila nella notte struggente della prima volta contro il Real Madrid, 1987, a fine settembre, c’era Diego.

Anche al San Paolo non ci facemmo mancare mortaretti, bottigliette in campo e la distruzione d’ogni cosa dopo la gara con lo Swindon Town. Gli eccessi del tifo azzurro.

La passione sopravvissuta al fallimento, 45.770 spettatori per l’esordio in serie C contro il Cittadella, 26 settembre 2004, si è andata spegnendo. È sopraggiunto un tifo più “selezionato”, competente, meno sanguigno.

L’ultima volta che ci si squagliò il sangue nelle vene fu per l’inimitabile finta di Maradona. Non avemmo più sangue nelle vene quel 13 giugno 1999, serie B, partita con la Cremonese. Al San Paolo eravamo in 89 paganti, sfregio memorabile a una storia complicata ma sempre unica.

Il caro-biglietti, le antipatie, le proteste organizzate vanno spopolando il San Paolo. Nel cielo di Fuorigrotta, da una nuvola spunta una sigaretta. Dietro c’è il petisso. Quanto ha lottato, vinto e sofferto Bruno Pesaola per il Napoli! “Siete tutti degli estronsi”. La sua voce percuote un popolo che allo stadio non ci va più.

15/9/2018
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