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La favola di Maradona
La sua storia a puntate – 122
di Mimmo Carratelli
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Come avevi detto a Claudia il giorno del tuo trentaseiesimo compleanno, vai all’allenamento del Boca. Ti diverti, corri, fai fatica ma corri. Vuoi uscire, vuoi stare all’aperto, non vuoi nasconderti più e gridare al mondo le tue verità. “Ogni giorno un colpo basso, una cattiveria, una bugia. Sono stanco”.
Indossi la maglia numero 10 del Boca, col numero sul petto perché si veda bene, e convochi a casa le telecamere del mondo. Vuoi parlare. Vuoi confessare ancora il tuo errore, il tuo vizio, la tua perdizione. Ma vuoi anche difenderti dalle ingiurie, dalle persecuzioni, dagli scandali che si montano sempre in tuo nome.
E’ l’inizio del novembre 1996. Nel salotto della tua casa di Buenos Aires si accendono le luci dei riflettori e gli obiettivi delle telecamere sono puntate su di te.
“Mi drogo perché sono malato. Mi drogo dal 1983. Ho provato a smettere un mucchio di volte e in ogni modo. Inutilmente. Ma continuo a lottare”.
Sei emozionato, parli a fatica. “La cocaina è la mia droga, un’esperienza terribile. Questa esperienza l’ho offerta ai giovani attraverso la campagna statale antidroga ‘Sol sin droga’ perché scappino dalla droga. Sono stato accusato di avere preso quattro milioni di dollari per questa campagna. Molti hanno detto che Maradona si droga con i soldi dello Stato. Non è vero. L’ho fatto gratis”.
Ritorna l’attacco ai politici: “All’improvviso questo Paese, l’Argentina, ha deciso che Guillermo Coppola è il capo dei narcotrafficanti e il governatore Duhalde, cioè il prossimo presidente di questo Paese, dice che anche Maradona deve marcire in una cella perché è un infermo, un malato”.
Sei un fiume in piena, Diego. “Prendo la cocaina. Sono uno che viene da un barrio povero, di periferia, e adesso che vivo in un bel posto non faccio il santo. Mi drogo. Ma giuro di non essere un narcotrafficante. E neanche Coppola lo è. Ma oggi è più importante parlare di Maradona e di Coppola piuttosto che dei trentamila desaparecidos che qualcuno ha sulla coscienza e di tutti gli altri scandali che abbiamo dentro casa”.
Non ti difendi, attacchi. E’ la tua natura, la tua selvaggia spontaneità, la tua sincerità spudorata, la tua verità e non ce ne sono altre. E il calcio? “Mi sono regalato un allenamento con i compagni del Boca per il mio compleanno. Il pallone è sempre importante, sempre. Ma ora, inevitabilmente, è passato in secondo piano. Mi hanno accusato di avere scambiato la mia provetta per l’antidoping dopo Boca-Estudiantes. Non è vero. Mi facevo i controlli tutta la settimana e, se erano positivi, non andavo in campo alla domenica. Questo facevo. Quella volta ho giocato, vuol dire che ero tranquillo e pulito”.
Vuoi liberarti di una pena. “Gli amici, tutti gli amici, quelli che si dicevano amici miei, sono fuggiti. Alla mia tavola non rimaneva mai un posto per sedersi. Oggi siamo in quattro. Dicevano: bisogna fidarsi degli altri. Io ho smesso, non mi fido più di nessuno. Tutti quelli che c’erano sempre, dove sono ora? Mi hanno detto di defilarmi, di lasciare Coppola al suo destino. Io rimango qui e combatto, altro che farmi da parte. E combatto per la mia vita. Ogni mattina lotto per svegliarmi. Lotto ogni mattina per riuscire ad aprire gli occhi. E’ triste non potere godere dei figli e della luce del sole”.
Non è un’intervista, nessuno fa domande. E’ uno sfogo che ci arriva diritto al cuore. Tornano alla mente le tue frasi tristi. “Sono e sarò un tossicodipendente”. “Al tempo dei trionfi e della felicità ero già all’inferno”.
Eri già all’inferno, a Napoli. Ma non riuscimmo a vedere la tua sofferenza dietro l’allegria delle domeniche al “San Paolo”, la tua solitudine, la tua lotta silenziosa. “Tanta solitudine perché chi si droga è solo, non parla, non racconta, si nasconde”. E così vennero i giorni in cui dicesti: “Sono un uomo che fa fatica a guardarsi allo specchio”.
C’è il modo di uscirne, Diego. Coraggio.
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