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Quella vecchia, pazza Inter
grande con Herrera e Mou
di Mimmo Carratelli
(da: il Mattino dell'11.03.2018)
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Ha compiuto 110 anni ieri la vecchia più pazza d'Italia, la bislacca Beneamata, la donna del Triplete, la sciantosa di Milano che piace tanto ai "bauscia", i gradassi della città, dipinta con ombretto nero e ombretto azzurro da un artista che insieme ad altri quarantaquattro gatti la mise al mondo in un ristorante e, poiché il ristorante si chiamava L'Orologio, a due passi dal Duomo, scoccò l'ora, scoccò la scintilla, scoccò la passione e, in assoluto anticipo sulla globalizzazione, fu chiamata Internazionale perché, disse il pittore Giorgio Muggiani, che la dipinse e la fondò, "
noi siamo fratelli del mondo".
Non sapeva, il pittore, a che razza di creatura ribelle, magnifica e incostante, avesse dato vita il 9 marzo 1908, un lunedì, ma, d'altra parte, la signora meneghina delle camelie fu il frutto di una scissione, pur essendo dichiaratamente non di sinistra.
Ha avuto perciò i suoi sogni e i suoi tormenti. Il pittore e gli altri quarantaquattro gatti fuoriuscirono dal Milan per formare il loro gruppetto calcistico di liberi e uguali.
Avevano preso in antipatia l'inglese di Nottingham Herbert Kilpin, baffetti sottili e faccia lunga e scialba, decisamente britannica, che nove anni prima era stato tra i fondatori della squadra cui proprio Kilpin diede il colore rosso del fuoco e il colore nero della paura "
che incuteremo agli avversari", insomma "
saremo una squadra di diavoli", e questo programma "
da cacciaviti", diciamo di bassa lega, era sembrato troppo volgare per il gruppo dei 44 artisti, professionisti e industriali milanesi più il pittore futurista che avevano idee aristocratiche.
Questa è un po' una leggenda metropolitana. Il dissidio e la scissione avvennero, in effetti, su un problema di immigrazione che è un noto problema di sempre. Il Milan si appiattì sul diktat della Federcalcio che impose il divieto di assumere calciatori stranieri, non che ci fosse già a quei tempi qualche Optì Pobà pronto a giocare in Italia che prima mangiava le banane.
Muggiani e gli interisti, come s'è detto, aprirono invece al mondo e, siccome il mondo allora era ancora piccolo, fecero una squadra con sette svizzeri, presi a un passo dal confine, e un brasiliano.
Fu il fascismo a castigare il pittore e i suoi amici quando impose all'Internazionale di Milano, l'esatta definizione della squadra, di chiamarsi Ambrosiana, nome sicuramente più leggiadro, da femmina di mondo e d'avventure, come si addiceva alla seconda squadra milanese, ma che servì solo a cancellare la tentazione che il nome precedente potesse evocare la Terza Internazionale Comunista nelle menti fasciste più fragili. Così si dice e bisogna crederci.
Ora di queste belle storie e leggende, l'Inter di oggi non ha più niente, l'Inter che ha vinto 39 titoli (18 gli scudetti), unico club italiano a giocare sempre in serie A, terza squadra per numero di tifosi in Italia e 17,5 milioni di sostenitori in Europa per le vittorie con Helenio Herrera e Mourinho, 9,3 milioni di simpatizzante in Sudamerica dai tempi delle focose sfide con la squadra argentina dell'Independiente di Avellaneda nella Coppa intercontinentale.
Sono passati i Moratti e i Fraizzoli. Oggi l'Inter è cinese e perciò più enigmatica di sempre. È caduta l'ultima foglia morta di Mariolino Corso su punizione, non c'è da tempo Veleno Lorenzi che diede a Giampiero Boniperti il soprannome di Marisa, sono lontanissime le "
stelle" del passato epico, Wilkes e Skoglund, Nyers, Suarez e Jair.
Dell'ultima Inter fantastica, quella del Mago Helenio, sopravvive Sandrocchio Mazzola, figlio del grandissimo Valentino, il suo dribbling infinito a Budapest contro il Vasas, sei avversari seminati come birilli, indimenticabile. E dell'Inter di Mourinho c'è in tribuna, a 45 anni, Javier Zanetti, uno dei fedelissimi nerazzurri, 858 partite, oggi vicepresidente del club.
Fino a sedici anni fa c'era Ronaldo, Ronaldo Luis Nazàrio de Lima, brasiliano di Rio, il Fenomeno che, con le sue prodezze e i gol perentori, attrasse sull'Inter l'entusiasmo, la gioia, il tifo delle gradi stagioni nerazzurre. Moratti, nel 1996, pagò al Barcellona i 48 miliardi della clausola rescissoria per avere l'asso brasiliano.
Lontano nel tempo il filotto dei cinque scudetti consecutivi, tre con Mancini e due con Mourinho. L'euforia nerazzurra per lo scudetto s'è fermata a otto anni fa.
Domani sera, il Napoli entrerà a San Siro nello stadio illuminato con le undici torri cilindriche, definito dal Times "
una astronave atterrata nella periferia milanese", con la voglia di riprendersi dallo scivolone con la Roma e l'amaro ricordo dello 0-0 dell'andata contro l'Inter al San Paolo che fu il primo inciampo (il secondo fu lo 0-0 a Verona col Chievo), i due pareggi che limarono pesantemente il primo vantaggio degli azzurri sulla Juventus (da 5 a un punto).
La superba Inter del girone d'andata s'è persa, con l'appannamento completo delle ali, Candreva e Perisic, ma è squadra che in casa ha fatto 31 punti (20 fuori), sorpresa a San Siro solo dall'Udinese (1-3 ed era dicembre).
Al San Paolo tolse profondità al Napoli, bloccò il tiki-tika azzurro e Spalletti si prese l'appellativo di ministro della difesa. I nerazzurri si arroccarono, Handanovic fece la sua parte e un tiro a giro di Insigne lambì il palo.
Sarà una partita dura, domani. Solo 9 vittorie azzurre nei 71 confronti con l'Inter sul suo campo.
Ma non è tempo di cifre e raffronti. Il Napoli deve riprendere la sua strada con gioia e gusto del gioco. Vedremo se Spalletti sarà ancora prudente puntando sul contropiede.
Il bonzo toscano di Certaldo sembra aver perso il controllo della squadra. Il suo cranio rasato è sempre lucente, ma non è più un faro, manda la luce di una candela la cui fiamma è scossa dai venti dello spogliatoio.
È l'Inter degli alti e bassi, la più bislacca squadra italiana. Ma, attenti, c'è il biscione nel suo stemma. Sembra in letargo, ma è pronto a mordere.