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Pesaola: sono 89 e me ne vanto
di Mimmo Carratelli
“Sono 89 e me ne vanto” dice il petisso nella sua casa di via Manzoni con vista panoramica sul San Paolo.

“E sai perché me ne vanto? Perché per due volte ho visto la porta nera, mi hanno salvato per miracolo. Già, le sigarette. Ne ho fumate troppe. Avevo polmoni di catrame e vene di cristallo, dure e fragili”.

28 luglio 1925. A Buenos Aires nasce Bruno Pesaola, quartiere Avellaneda. È lo stesso giorno in cui a Montevideo nasce Juan Alberto Schiaffino. “Con rispetto parlando” commenta il petisso.

Bruno Pesaola è a Napoli dal 1952. Aveva 27 anni. Dal viaggio di nozze in costiera amalfitana con Ornella, il petisso sbucò puntuale al raduno del Napoli fissato da Monzeglio al Parker’s davanti a un Lauro trionfante che aveva appena ingaggiato Jeppson. Con il centravanti svedese, Pesaola e Giancarlo Vitali alle ali, il Napoli sfoderò un formidabile tridente.

Il petisso ebbe la sua prima casa in cima all’Arenella comprata con l’ingaggio azzurro, sei milioni di lire. Legò a Napoli il suo cuore. “Perché questa è una città dove non ti senti mai solo” dirà un giorno dopo avere perso Ornella, stroncata da un brutto male.

Costretto a un paio di “esili” dalle vicende calcistiche, vincendo uno scudetto a Firenze e diventando un beniamino a Bologna, di passaggio in Grecia al Panathinaikos, il petisso non si è mai staccato da Napoli.

“Sono un napoletano nato a Buenos Aires”. Figlio di un calzolaio di Montelupone, in provincia di Macerata, emigrato in Argentina dopo la prima guerra mondiale che, a Buenos Aires, sposò una spagnola di La Coruna, Inocencia Lema.

Segno zodiacale leone. “Poteva essere diversamente?” fa lui. I nati sotto il segno del leone sono egocentrici e generosi, hanno volontà e determinazione unite a gentilezza, sono portati ad assumere posizioni di comando, passionali e narcisisti, bisognosi di ammirazione, portati allo spettacolo.

“Dovevo fare l’attore, ho fatto l’attore nel calcio”.

Quelli del segno del leone non amano vincere con facilità, preferiscono la conquista. “S’è mai vinto con facilità a Napoli?” dice. Hanno un ego fortemente pronunciato. “Beh, sono io” conclude il petisso.

Barack Obama è del segno del leone. “Buon per lui” fa Pesaola. Mussolini era del segno del leone. Anche Bill Clinton, Louis Armstrong, Fidel Castro.

“Tutti questi? Anche Schiaffino era del segno del leone”.

Anche donne famose: Madonna, Coco Chanel.

A chi vorrebbe somigliare Bruno Pesaola? “A Coco Chanel” dice con una espressione buffa. “Marilyn Monroe diceva che di notte indossava solo lo Chanel numero cinque. Mi sarebbe piaciuto essere il pigiama di Marilyn” e allarga il sorriso a salvadanaio.

Facciamo una pausa tra i ricordi. Qual è la formazione ideale di Bruno Pesaola? Ci pensa un po’ e ne tira fuori una molto originale.

“Zoff in porta. Terzini i due Santos, Djalma e Nilton. Battitore libero Ronzon con Franco Baresi di riserva. Più avanti Bruno Conti, Schiaffino e Valentino Mazzola. Di Stefano dietro le punte. All’attacco Pelè, Maradona e Platini”.

Ma è una formazione senza incontristi, senza giocatori che fanno pressing, senza centrocampisti, una manna per gli avversari.

“Una manna un corno! Con quei tre dietro più Pelè, Maradona e Platini davanti, gli avversari non si possono distrarre un momento, ne prenderebbero quattro se non di più. Perché se hai attaccanti che fanno gol, e stiamo parlando di Pelè, Maradona, Valentino Mazzola, Schiaffino, Platini, puoi giocare senza copertura. Puoi prendere gol, ma ne fai il doppio. Puoi vincere 5-4, 6-5. Tutto uno spettacolo da impazzire, una gioia per il pubblico. Ma questa mentalità l’Italia non l’ha mai avuta. Era la patria del difensivismo ai miei tempi. Il catenaccio fece storia”.

E chi sarebbe l’allenatore di questi fenomeni?

“Il sottoscritto, che dubbio c’è?”.

Chi è stato il più forte di tutti?

“Maradona. Meglio di Pelè che non si è mosso mai dal Brasile e ha giocato sempre in uno squadrone, il Santos. Maradona ha vinto un Mondiale da solo”.

Sei più alto o più basso di Maradona?

“Pare che io sia più alto, di un centimetro”.

Tu quanti ne dichiari?

“Uno e sessantasei, ma se Maradona avesse avuto la mia testa avrebbe continuato a fare il fenomeno fino a 40 anni”.

Chiudiamo col Napoli in cui hai giocato.

“Che cosa vogliamo dire? Segnavamo molti gol. Fummo il secondo attacco del campionato nella stagione 1957-58 con 65 reti, l’anno in cui Vinicio ne fece ventuno. In maglia azzurra, mi sono riuscite due ‘doppiette’: al Palermo e nel famoso 5-3 contro il Milan a San Siro. L’ultimo gol col Napoli lo segnai al Vomero, contro la Sampdoria. Vincemmo 3-2. Ma ormai facevo il tornante o la mezz’ala di spola. I gol li facevano gli altri. Io dovevo correre a difendere e passare la palla agli attaccanti.

Quando Amadei cominciò a correre di meno, io e Granata coprivamo la squadra. Ci sacrificavamo per lui. Poi da allenatore mi nominò capitano anche se Comaschi era più anziano, giocava da più tempo nel Napoli. Però, ecco, quando andava a discutere i nostri ingaggi non spendeva mai una parola per me. I suoi pupilli prendevano il doppio, io rimanevo sempre indietro”.


Successe dell’altro con Amadei?

“Lauro prese Frossi. Il dottor sottile, com’era chiamato, durò quattro giornate. Non vinse una partita e Lauro lo cacciò richiamando Amadei. Io dissi al Comandante che aveva fatto un errore madornale a richiamarlo. Nella squadra c’era il caos.

I giornali riportarono la falsa notizia che Vinicio era carente di globuli rossi. Luis fece delle analisi ed era tutto a posto. Tornò come un pazzo contro Amadei che l’aveva chiamato sifilitico.

Per calmarlo, passavo tutta la giornata con Luis e anche molte notti. Amadei era il pupillo del Comandante e nessuno poteva cacciarlo. Lui sapeva come fare con Lauro. A fine campionato, fu Amadei a cacciare via me e Vinicio.

Se c’era stata guerra, l’avevamo persa”.
28/7/2014
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