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La morte di Gianni Di Marzio
di Mimmo Carratelli
(da: Roma del 23.01.2022)
Se ne è andato a 82 anni il ragazzo riccioluto di Mergellina per un antico male che gli aveva aggredito i polmoni due anni fa. Gianni Di Marzio è morto ieri a Padova.

Un tweet di Gianluca, il figlio che da popolare esperto di calciomercato lavora splendidamente a Sky, me ne dà notizia ieri mattina, presto. Leggo le sue parole: "E adesso potrai finalmente allenare il tuo caro amato Diego, sei stato un grande papà". Una stretta al cuore.

Rileggo una lettera di Gianni del 2007 in cui mi rimproverava, a ragione, un cattivissimo e lontano articolo su di lui. Non me l'ha mai perdonato.

È stato il primo a scoprire Maradona quando Diego aveva 18 anni. Lo vide in Argentina. Lo segnalò al Napoli e alla Juventus. Ma Diego non poteva lasciare il suo paese e l'Argentinos Juniors perché l'Argentina era impegnata nel Mondiale. Con Diego, Gianni ha avuto una grande amicizia.

Un brutto infortunio troncò la carriera di calciatore di Gianni Di Marzio quand'era un bel ragazzo riccioluto, bruno, occhi vivaci, intelligenza spinta e un grande amore per il calcio. Da allenatore, il suo vero mestiere, subito a caccia di trucchi e furbizie perché il gioco avesse il sale dell’invenzione e della trovata non solo tattica.

Era sbocciato a 28 anni sotto le ali di Vinicio all'Internapoli, la seconda squadra cittadina che giocava al Vomero e aveva un suo seguito perché fu la “culla” di Chinaglia, Peppeniello Massa e Wilson, i tre che andarono ad esaltare la Lazio di papà Lenzini.

Si mise subito alla prova, Di Marzio, sugli infuocati campi della Campania, a Nocera e a Castellammare di Stabia. Poi andò a Brindisi e a Catanzaro. Innovativo e travolgente. Tornava a Mergellina, tra la sua gente, a raccontare prodezze e progetti con l’ambizione grande di sbarcare in serie A. Mai avrebbe pensato che, un giorno, ci sarebbe riuscito addirittura a Napoli, la sua città. Quella era più di un’ambizione. Era un triplice salto mortale.

Arrivò dopo che sulla panchina azzurra c’erano stati Vinicio (tre anni furenti e spettacolari) e Pesaola, raccogliendo, quindi, un’eredità pesante, per giunta invischiandosi nell’originale programma di Ferlaino di dare spazio ai giovani. Una mezza follia per il pubblico del “San Paolo” che aspettava di vedere solo grandi campioni.

Era il 1977 e il Napoli aveva la sede in via Crispi. L'arrivo di Gianni fu molto cinematografico. Un raid automobilistico in città per seminare i giornalisti, sgommata finale dell'auto di Ferlaino, un pilota da Targa Florio, sulla collina di Posillipo sotto casa di Gianni Punzo, firma del contratto.

Gianni apparve con la grande carica del suo cuore napoletano, l’immensa passione e, forse, una sicurezza eccessiva (ma faceva parte del suo carattere e della sua giovinezza, a 37 anni). Disse: “A Napoli non mi gioco una carta, ma la ‘matta’, mi gioco la carriera”.

Di Marzio ebbe un debole per un portiere sconcertante, il pisano Massimo Mattolini, lungo, magro e precocemente calvo, un frate, azzardandone un futuro in nazionale.

Con un Napoli di combattenti (Bruscolotti, Ferrario, Vinazzani, Stanzione), con Juliano e Savoldi, il frizzante Massa e gli ultimi fuochi fatui di Chiarugi, fece un magnifico sesto posto. Lanciò il diciottenne Moreno Ferrario, che sarà poi una colonna della difesa napoletana. Conquistò un lodevole sesto posto e la qualificazione in Coppa Uefa.

Lo ricordo ancora. Era settembre e a Tbilisi faceva già un gran freddo, un vento forte e teso veniva giù dal Caucaso, lo stadio era enorme. Ci raccomandarono di non chiamare russi quelli di Tbilisi perché loro erano georgiani e basta, compaesani del compagno Stalin. Di Marzio raccomandò alla squadra di tenere duro perché avremmo liquidato i georgiani a Napoli.

Il Napoli resistette 40 minuti, poi segnò Kipiani, il più famoso dei nostri avversari, e raddoppiò Scenghelija, un mezzo sconosciuto per noi, ma popolarissimo sotto il Caucaso. Due a zero secco, come il freddo di Tbilisi, ma li squaglieremo al caldo di Napoli pensò Di Marzio.

Il caldo a Napoli non bastò, i georgiani non si sciolsero. Ci mancò Pellegrini e giocò il minibomber siciliano Santino Nuccio, un ragazzo della Primavera. Tutti attenti su Kipiani e Scenghelija, ci fece gol Daraselija! Savoldi segnò su rigore e fu tutto. Uscimmo dalla Coppa Uefa.

Con Gianni facemmo una magnifica Coppa Italia agguantando la finale di Roma il 29 giugno 1978 dopo un memorabile 5-0 alla Juventus (quattro gol di Savoldi e uno di Pin), era una mezza Juve con otto nazionali fuori, impegnati al Mondiale.

A Roma ci toccò l'Inter di Bersellini. Andammo fulmineamente in vantaggio con Restelli, pareggiò Altobelli e, a tre minuti dalla fine, Bini segnò il 2-1 e l'Inter si portò via la Coppa.

Al secondo anno sulla panchina azzurra, Gianni era su di giri. Precampionato a Bressanone con l'arrivo di Castellini. Se ne andò bruscamente Juliano. Tutto fu molto brusco e precipitoso quell'inizio del campionato 1978-79. Ferlaino aveva la faccia più scura di quella eternamente abbronzata del segretario Zuppardi. Stava succedendo qualcosa dietro le quinte.

Mentre con Di Marzio andavamo a Firenze, alla seconda giornata, Ferlaino andava in autostrada a incontrare Vinicio per il ritorno del "leone" sulla panchina azzurra. Bella roba. Fine della programmazione (ringiovanire, ringiovanire) e fine di Di Marzio.

Un malevolo comunicato della società puntualizzò: "Il Consiglio direttivo si vede costretto a privarsi dell'operato del signor Gianni Di Marzio in quanto in questo periodo non è abbastanza sereno per guidare la squadra". Sbalorditivo.

Forte dell’impegno di tre anni sottoscritto da Ferlaino, Gianni ebbe appena il tempo di battere l’Ascoli e perdere a Firenze e fu liquidato. La sua stagione azzurra durò un campionato e due giornate.

Andò a mietere allori altrove con la sua parlantina sciolta, la simpatia di uno scugnizzo gentile e l’ottima competenza del pallone. Sopravvisse a un brutto incidente automobilistico e, nonostante la delusione di Napoli, rimase un ottimista e un appassionato uomo di calcio.

Il suo soggiorno più gratificante fu a Catanzaro, dove convinse Claudio Ranieri, suo giocatore, a intraprendere la carriera di allenatore, il suo paradiso fu Catania portando la squadra in serie A e il capolinea a Palermo (1991-92) concludendo la sua lunga carriera di allenatore di undici squadre, 633 volte in panchina (204 le vittorie).

22/1/2022
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