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Recensioni
Se questo è un uomo di Primo Levi
di Luigi Alviggi
“Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno. / Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa, andando per via, / coricandovi, alzandovi; / ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi.” 

Primo Levi (Torino, 1919 – 1987), ebreo, chimico e scrittore, fu quasi fortunato a entrare in Auschwitz nel febbraio ‘44 quando la guerra già iniziava a dare assuefazione in ogni suo effetto e anche le estreme crudeltà, pur sempre in auge, avevano perso il mordente furioso e mortale dei primi tempi. Sarà uno dei 19 sopravvissuti tra i 650 deportati dal campo di Fossoli su un treno merci verso il lager. Anche su lui, giovane, i patimenti subiti lasceranno un’impronta nel fisico per l’intera vita. Il libro è di una realtà terrificante! Ci introduce con pathos ineguagliabile nei luoghi, nelle situazioni, nelle violenze, nei tradimenti a ogni passo, che rendevano il luogo copia dell’Inferno, se non peggio! Una testimonianza viva e indistruttibile di quanto centinaia di migliaia di individui hanno sofferto…

“Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico…”     (dalla Prefazione scritta dall’Autore)

Nell’approfondita postfazione leggiamo: “Questo libro ha ambizioni ben più alte che quella di contribuire alla letteratura sui campi di annientamento. L’Autore dichiara nella Prefazione che intende «fornire documenti <(i>peruno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano.» Nello stesso tempo denuncia le conseguenze di ogni concezione xenofoba. Quando essa diventa un «sistema di pensiero», quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Riconosce infine il bisogno di liberazione interiore, conseguenza di un «impulso immediato e violento» a raccontare la propria esperienza. Dunque, quattro scopi: 1. documentare un’esperienza estrema; 2. mostrare, anche per poterle prevenire, le peggiori conseguenze della xenofobia; 3. meditare sul comportamento umano in condizioni eccezionali; 4. Raccontare per liberarsi dall’ossessione.”

Reduce da Auschwitz, Primo pubblicò "Se questo è un uomo” nel ’47 (finito nel gennaio dell’anno), scritto a caldo nel breve periodo dopo la liberazione dell’Europa dal nefasto spettro nazista. Mandò il dattiloscritto all’editore Einaudi ma i due lettori di questi – Natalia Ginzburg e Cesare Pavese! – non diedero parere favorevole perché c’erano in giro già troppi libri sull’argomento. Verrà allora pubblicato con le edizioni Francesco De Silva (tipografo piemontese del XVI secolo), e il suo fondatore Franco Antonicelli scelse il titolo attuale laddove Levi aveva indicato “I sommersi e i salvati”. Einaudi lo accoglierà poi nel ‘58 nei Saggi e da allora viene continuamente ristampato ed è stato tradotto in tutto il mondo. Una ineguagliabile testimonianza di ciò che fu l’abietto nazismo di Hitler, personificazione del funesto Lucifero. 
Uno dei motivi della bocciatura – come dirà lo stesso Levi nell’edizione del ’76 – fu che nell’immediato dopoguerra ci fu una rimozione collettiva del recente passato. La voglia universale era quella di guardare avanti, dimenticare la sofferta catastrofe appena finita e sperare in un futuro migliore per tutti!  
Ecco l’inizio del martirio:

Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste sner­vanti. Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi pallide della val d'Adige, gli ultimi nomi di città italiane. Pas­sammo il Brennero alle dodici del secondo giorno, e tut­ti si alzarono in piedi, ma nessuno disse parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente mi rap­presentavo quale avrebbe potuto essere la inumana gioia di quell'altro passaggio, a portiere aperte, che nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi nomi italiani... e mi guardai intorno, e pensai quanti, fra quella povera pol­vere umana, sarebbero stati toccati dal destino.

Ed ecco l’arrivo sul luogo del supplizio:

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre que­sto pur tenue principio di discriminazione in abili e ina­bili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio, andavano in gas gli altri.”

Un libro che bisogna assolutamente leggere perché una certa Storia non si ripeta nell’umanità mai più e poi (di storie ne sentiamo tante giornalmente) perché raccontata da un uomo di valore e sensibilità speciali che ci è passato attraverso inglobandole nell’animo distrutto. Otteniamo una conoscenza profonda di quanto realmente accaduto alla quale, con l’immaginazione, davvero pochi possono arrivare.

Le perversioni morali e mentali dei nazisti – in particolare le SS! – devono obbligarci a riflettere (oggi più che mai!) su quanto la pazzia insita nel potere di un leader politico in carica possa indirizzare l’animo dei seguaci, orientandoli a scatenare il lato peggiore della loro indole. Questo aspetto oggi non mi pare trattato nella dovuta importanza e molti dovrebbero già ora inorridire su quale possa essere la risposta popolare all’elezione di un Trump a Presidente USA, cioè su cittadini tormentati da questioni plurisecolari: vedi la discriminazione razziale che riporta alla Guerra di Secessione (1861- 65, Presidente Abramo Lincoln) contro la schiavitù dei negri, allora in voga negli stati del Sud ma ancora oggi in tutto il paese (Black Lives Matter). I seguaci più accesi arrivano a credere che “sposare” un pessimo atteggiamento del proprio condottiero politico - troppe volte più sfrenato di un capo militare! – li autorizzi a seguirne i comportamenti, e dunque scatenare dal profondo i peggiori istinti che la fragile natura umana da sempre racchiude al suo interno…

La “Buna” – cui Levi fu assegnato nell’infame soggiorno - era una fabbrica per la gomma sintetica, destinata a sorgere all'interno di un lager satellite di Auschwitz, fabbrica alla cui costruzione lavorò con altre centinaia di deportati, ma essa non entrò mai in funzione per la fine della guerra. Nello scritto seguiamo, passo per passo, la degradazione della persona umana già iniziata nell’asfissia del vagone ferroviario piombato che ha trasportato gli sventurati, senza acqua disponibile, dal luogo della cattura alla destinazione nel gulag, e sarà un’avvilente lotta continua con i sorveglianti e gli aguzzini tedeschi che, per la stragrande parte degli internati, finirà solo con la morte per inedia, stenti, gelo, oltre che per gli enormi soprusi che dovranno subire senza scampo. L’infamia più grande - a rifletterci - è che per i prigionieri non esistono più nomi, ogni internato viene chiamato SOLO con le ultime tre cifre del numero che gli è stato stampigliato sul braccio all’ingresso nel campo, e che rimarrà impresso per tutta la vita a rendere indimenticabile - qualora fosse mai possibile - l’enorme sventura capitatagli al tempo…
Con Primo possiamo affrontare, quasi compagni di sventura, le martoriate ore di un giorno lavorativo quando ne vengono dettagliate le difficoltà estreme: neve e fango d’inverno, acqua lurida e fango d’estate. Ci vengono descritti i complessi e variati traffici che avvengono con i “graduati” del complesso, la gran parte dovuti ai furti tra carcerati, nei quali la moneta più comune è la razione di pane quotidiano (o sue parti) usata per gli scambi. Taluni indispensabili, nonostante la fame perenne di tutti. E preziosa è anche – per la Storia – la narrazione della scala gerarchica esistente, determinata da mesi o anni di permanenza nel campo, tra i livelli più alti (SS alla sommità) e quelli più bassi, destinati in tempi brevi alle camere a gas: i “mussulmani” (Muselman), e l’Autore dichiara di non sapere perché fossero designati con questo nome i prigionieri la cui morte era prossima. Due sono gli appellativi riservati nell’internamento agli estremi della graduatoria umana: i salvati (o prominenti) e i sommersi. I primi hanno una qualche carica nella gerarchia interna, i secondi sono coloro che presto respireranno il gas lasciando i beni non rubabili in vita: occhiali, denti d’oro, vestiario per quanto logoro. Le due categorie rappresentano il paradiso e l’inferno tra i reclusi, e noi soffriamo per immedesimazione. Assenti le lacrime: quando si vive al limite della fine non c’è tempo per piangersi addosso, significherebbe la resa totale. Nessuna donna: i sessi vengono divisi appena giunti nel lager, con le donne vanno anche i bimbi (questi destinati a brevissima sopravvivenza). La descrizione delle sofferenze rende Levi un compagno col quale è forzato condividere percorso e stati d’animo. 
Per citare uno tra i mille perfidi disagi: i vecchi del blocco in cui ciascun gruppo è rinchiuso hanno esercitato l’udito fino a saper percepire dal suono dell’urina cadente nel secchio di raccolta (che va svuotato una ventina di volte a notte) il livello raggiunto dal liquido e regolarsi di conseguenza. Tutto questo per non essere costretti ad andare a svuotarlo fuori dalla baracca in “veste notturna”, cioè solo in camicia e mutande! La troppa acqua ingerita deriva dal rancio molto acquoso che viene dato ai prigionieri, senza altro da bere, e prelevato da una marmitta il cui fondo non viene mai sfiorato dal mestolo dal Kapò di turno perché è quello che rimarrà a lui! Singolare poi che ogni punizione nel campo colpiva allo stesso modo il ladro e il derubato. Ed ecco un’altra finissima analisi psicologica di Primo:

I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti, passate e ataviche, e la tradizione e l’educazione di ostilità verso Io straniero, per farne mostri di asocialità e di insensibilità. Essi sono il tipico prodotto della struttura del Lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tra­dimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto al­la legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà stato concesso. Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati, con diritto di vita o di morte su di essi, sarà crudele e tirannico, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, su­bentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua ca­pacità di odio, rimasta inappagata nella direzione degli oppressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppres­si: ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato sui suoi sottoposti l'offesa ricevuta dall'alto.”        

Del riadattamento indispensabile per i miracolati ritornati a casa nel libro non si parla, è lasciato alla nostra immaginazione, ma sicuramente è una prova non minore rispetto alle altre cento superate ritrovarsi nei panni propri e ricominciare a guardare la vita di sempre con gli occhi di prima! Nel campo i carcerati dormivano in due per cuccetta, uno a capo e l’altro al piede…

“Qui c'è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffu­samente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapò che mi ha percosso sul naso e poi mi ha manda­to a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d'altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia so­rella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.” 

E qui corre in mente l’analoga situazione nella splendida “Napoli milionaria” (1945) di Eduardo De Filippo (1900 – 1984) e del suo personaggio - reduce dalla Seconda Guerra Mondiale (la più terribile!) Gennaro Jovine, tranviere disoccupato - che vive in un “basso” e la cui moglie si è enormemente arricchita durante la guerra con la borsa nera praticata senza scrupoli in danno dei troppi malcapitati. Chi non aveva vissuta la guerra la soffriva di riflesso e le cose che danno sofferenza si tende a evitarle… dunque nessuna partecipazione verso i ricordi del sopravvissuto.  La morte è sempre in agguato e la si conosce bene. Si legge negli occhi di chi, in impossibili condizioni di vita, prende infezioni e malattie varie e aumenta ancor più quando i carcerieri abbandonano il campo giacché le truppe russe sono ormai vicinissime. I reclusi hanno molte cose abbandonate nella fuga a disposizione ma oramai lo sfinimento fisico e mentale è tale che solo pochissimi potranno profittarne. Non si è più in grado di andare a prendere quanto di vitale, cibo soprattutto, è rimasto disponibile in mezzo alla neve, al gelo e ai troppi cadaveri.

26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L'opera di bestializzazione, intrapre­sa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimen­to dai tedeschi disfatti.” 
Il giorno dopo (27.1.1945) i Russi entrano ad Auschwitz, la vita dei pochissimi carcerati superstiti poteva ricominciare… I nazisti uccisero quasi tutti gli occupanti rimasti nel campo prima di abbandonarlo. Di questo libro l’Autore inizierà la scrittura già nel dicembre ’45! Il seguito di esso sul lungo ritorno verso casa a Torino verrà raccontato nell’opera “La tregua” (1963).

“Né si creda che le scarpe, nella vita del Lager, costi­tuiscano un fattore d’importanza secondaria. La morte incomincia dalie scarpe: esse si sono rivelate, per la mag­gior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatal­mente si infettavano. Chi ne è colpito, è costretto a cam­minare come se avesse una palla al piede (ecco il perché della strana andatura dell'esercito di larve che ogni sera rientra in parata): arriva ultimo dappertutto, e dapper­tutto riceve botte; non può scappare se lo inseguono; i suoi piedi si gonfiano, e più si gonfiano, più l'attrito con il legno e la tela delle scarpe diventa insopportabile. Al­lora non resta che l’ospedale: ma entrare in ospedale con la diagnosi di «dicke Fűsse» (piedi gonfi) è estremamente pericoloso, perché è ben noto a tutti, e alle SS in ispecie, che di questo male, qui, non si può guarire.”         





“Ma come si potrebbe pensare di non aver fame?



Il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, la fame vivente.”




 “Quando si lavora, si soffre meno e non si ha tempo di pensare:



le nostre case sono meno di un ricordo.” 




“…le notti erano incubi senza fine…”





Primo LEVI: Se questo è un uomo
postfazione di Cesare Segre


EINAUDI, 2014 


pp. 214 - € 13,00





















14/2/2024
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