Cultura
Il capro espiatorio
di August Strindberg
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Una cittadina nel
sud della Svezia è il centro del mondo scelto da August Strindberg (Stoccolma,
1849 – 1912) per il suo romanzo finale. Piccolo è il numero di abitanti, ma
proprio in luoghi simili emergono accentuati difetti e pregi di ciascun individuo.
Sede un tempo di celebri terme ove:
“attempati pensionati, vedove
e infermi hanno scoperto la piccola città senza ferrovia, dove possono
nascondersi con i loro acciacchi e le loro pene e prepararsi all'estremo
viaggio…”
Pur di giorni datati, le
descrizioni dell’Autore si fanno apprezzare per precisione, dettagli e sentimenti
evocati, fino a dar loro vita sotto occhi non più avvezzi a manierismi superati.
Si aggiungono l’attualità delle situazioni, in dialoghi dettagliati tra
“presunti amici”, e la stupefacente ampiezza di indagine psicologica dei personaggi.
In sostanza il libro risulta moderno, nåuo titolo alternativo è stato
“La vittima”: è il terzo lavoro della cosiddetta “trilogia della
solitudine”, insieme con “La festa del coronamento” e “Solo” (già
pubblicati dalla Carbonio). Vi leggiamo osservazioni profonde sulla natura
umana e sugli inutili tentativi di opporsi al destino che, violentando
all’occasione chiunque, rende vana la lotta a ostacoli fuori portata. Essenza
di qualunque “capro-espiatorio” è una rassegnata (ma di certo dolorosa!)
accettazione-sopportazione di quanto la “mala” sorte assegna senza risparmio.
Il giovane Edvard Libotz - definito da Strindberg: “uomo intelligente,
acuto, di mente aperta (…) Questo forte intelletto, nella vita, era tuttavia un
ingenuo e poteva sembrare persino sciocco, quando metteva nelle mani dei nemici
armi e munizioni, offrendo la testa sul piatto al primo venuto. Tutto ciò
derivava dalla sua ingenuità… - giunge nella cittadina, timido, quasi
goffo, accarezzando rosei sogni per l’avvenire: successo professionale, sposare
una brava giovane del posto, assicurarsi un futuro se non gioioso almeno piacevole.
I pesi recati seco però non sono piccoli: senso del dovere, rassegnazione a
caricarsi colpe altrui, un temperamento comunicativo, un’aperta disponibilità
verso gli altri… Una piccola comunità ostile ai forestieri - questo allora
ancor più di oggi - e un Libotz scrupoloso e oppresso da severi obblighi morali
gli infliggono lo stigma del “perdente”, della vittima sacrificale, di cui ogni
gruppo umano ha un bisogno vitale senza il quale pare non riuscire a trovare una
propria dimensione…
Stile e registro
del narrato, agili, attuali, ben si adattano ai nostri giorni “limpidi e foschi”,
traversati da una costante ansia collettiva il cui obiettivo pare ignoto alla (quasi)
totalità degli “agitati”… Di
speciale
impatto attuale è l’ostinata convinzione nelle proprie idee dei protagonisti
che si abbandonano alle apparenze, non preoccupandosi di andare al di là del
proprio naso sulla vera realtà degli eventi. Ancor più centrata l’ampia
rassegna di situazioni sociali abnormi in cui l’accusatore ha sempre la meglio
sull’innocente accusato, nella fattispecie il “povero” Edvard. Conferma, ove mai
ce ne fosse bisogno, che i grandi difetti umani sono incastonati nel nostro DNA.
In questa balzachiana “commedia umana” tre gli attori: l’oste Askanius, il capo
della polizia locale Tjärne, e Libotz.
Afferma
Franco Perrelli nell’introduzione (che titola “Un romanzo di santi e
di buffoni”): “Strindberg ribadisce
che ‘il metodo di Balzac: piccoli uomini, grandi punti di vista’ stava a
fondamento del capro espiatorio: ‘Una storia di grande valore su un essere
umano che scopre presto il suo destino (= il karma) e quindi non invidia gli
altri raffrontando l’ingiustizia; egli soffre invece per i peccati altrui,
pazientemente.” E ancora: “delle azioni di questi "piccoli uomini”
Strindberg si serve, anche con soffuso umorismo – “l'umorismo di - Kierkegaard
e di Kafka, sfumato di tragicità”. E ricorda anche “L’idiota” (1869)
di Dostoevskij.Il padre del
protagonista - un maligno droghiere che spende l’esistenza a frodare i
contadini, facendo girare monete false, pesi truccati, merce adulterata – del
tipo:
“se la notte si lascia il salmone salato nel latte scremato
ridiventa come fresco, e poi nessuno protesta, santo Dio” – vuole che il
figlio faccia l’
avvocato: “Tutti
i disonesti sono attratti dal diritto, amano le leggi, per quel che
possono proteggerli dalle accuse”, e così sarà. Libotz,
scampato a 13 anni a un tentato suicidio nella drogheria paterna contro le
vessazioni del padre padrone, inizia il lavoro indipendente e, dopo un buon
praticantato in Corte d’Appello, approda per la libera professione nel paesino suddetto
dove trova due pilastri locali: Askanius - da giovane cantante in un quartetto
di successo - proprietario di una locanda omonima in cui è diffuso il far
credito a clienti in difficoltà (e su queste basi ovvio che sa tutto su tutti) e,
valido compagno in questo, l’ambiguo capo della polizia Tjärne che, dato il
ruolo, arriva persino a superarlo. Con l’ostinata assenza di clienti nei primi
tempi, Libotz non può che divenire un affezionato frequentatore dell’oste e, per
non farsi mancar nulla e darsi un qualche prestigio, assumerà anche uno
scrivano disonesto, Sjògren, che gli darà il suo bel filo da torcere.
Quando i clienti
iniziano ad arrivare, a Libotz paiono schiudersi i cancelli del cielo sospirato
quand’ecco due pesanti tegole abbattersi sul capo innocente in atto di sollevarsi.
Il disastro del padre che viene a trovarlo ubriaco e lo costringe, per
escandescenze nella locanda sulla richiesta di salvarlo dal fallimento, a
finire dinanzi a Tjärne e da qui ad arrivare sui giornali locali che scrivono
di entrambi ubriachi e offensivi verso il tutore dell’ordine. Il figlio cercava
solo di calmarlo e mettere tutto a tacere. Poi, per giunta, dovrà pagargli
anche il cronicario (l’ospizio non è accessibile, dato il figlio “ricco”). Da
qui nasce un altro problema: il fratello maggiore è dipendente di un conte nell’amministrazione
di una sua tenuta. Il padrone, venuto a conoscenza del fatto, pretende da lui una
garanzia economica per la prosecuzione del lavoro che non può che finire
anch’essa sulle spalle di Libotz. Il benessere intravisto si allontana rapido come
un missile in decollo…
Nella limitata
vita che l’avvocato può offrirsi non ha modo di frequentare donne e così,
desideroso di farsi una famiglia, i suoi occhi si appuntano su Karin, cameriera
nella locanda. Non è una bellezza ma, man mano, nei pensieri lui riesce a
trasformarla in un’immagine adatta alle aspirazioni, e inizia gli approcci.
Date le situazioni reciproche è chiaro che le cose non possono andare per le
lunghe, ed entrambi costruiscono nella fantasia un futuro comune. Ed ecco - prima
volta - capitare un’intera domenica da stare insieme per i due colombi:
“Ormai il lesto cammino era
accompagnato solo dal rumore delle scarpe e dal frusciare dei loro vestiti.
Libotz masticava asciutto, avvertiva il vuoto mentale e gettava occhiate dalla
parte dei campi per individuarvi qualcosa di cui parlare, mentre dentro di sé
era torturato dal pensiero di un processo al quale però non voleva accennare.Era immerso da un pezzo nel
suo caso quando la donna trovò quel silenzio importuno, persino increscioso:«Dì qualcosa, Edvard! È
lugubre questo silenzio».Libotz lasciò perdere le sue
testimonianze, ma si confuse e, nella sua miseria, pronunciò proprio ciò che non
avrebbe mai dovuto:"Che cos'è che devo
dire?".Era una dichiarazione di
bancarotta, di resa, il filo s'era reciso. Due estranei camminavano fianco a
fianco con i loro pensieri, pensieri su loro stessi, sui loro rapporti, sulle
cause di quel silenzio. E presto l'estraneità si mutò in avversione. Si
sentivano reciprocamente incattiviti, visto che potevano camminare in silenzio
con le loro idee senza comunicarsele, e più tacevano e più la situazione
peggiorava. Disperato, Libotz strappò una piantina dal terreno ed esclamò con
finto interesse:"Vedi, che strano
fiore!".Karin avvertì sia l'ipocrisia
nell'esclamazione che l'elemosina che le veniva offerta, sicché non lo curò
d'uno sguardo, neanche rispose, raddoppiò invece l'andatura come se volesse
spiccare il volo.Libotz le andava dietro e si
sentiva licenziato, certo che tutto era finito e già pensava a dove avrebbe
pranzato in futuro visto che da Askanius non sarebbe stato più il caso di
recarsi. Si chiedeva persino se non ne avrebbe spettegolato il giornale, che
cosa si sarebbe mormorato in città. Era così vivamente preso in questa nuova
fantasia che rallentò il passo e lasciò andare avanti Karin proprio dove la strada
svoltava, e la donna sparì. Trovava la cosa assolutamente naturale: lei aveva
rotto, tutto era finito ed era un autentico sollievo. Sedette su un masso, si tolse il
cappello, si asciugò la fronte, non pianse: il conforto di essere solo, di
ritrovare se stesso era un godimento così intenso che cominciò a fischiettare,
tracciando disegni sul terriccio.«Caspitina, quant'è strano,
tutto», pensava, «eh, davvero strano!».Ma cominciò a subentrare
un'angoscia che lo sopraffece, si alzò e s'incamminò di nuovo, avanti, e alla
svolta trovò Karin, piegata contro un albero, che piangeva. Piangevano insieme
adesso, dapprima in silenzio, nella comune disperazione di non bastarsi, di non
poter riempire il tempo l'uno dell'altra, finché alla fine Karin si sfogò:«Che pena, non l'avrei mai
creduto!».«Sì, è davvero penoso!»,
assentì Libotz. «È meglio che ci separiamo per un po', prendi la strada tu, io
andrò per i campi, ci ritroveremo al boschetto».La proposta era inconsueta ma
opportuna e fu accettata.”Come che sia,
arrivano al ristorante e mangiano insieme più liberi e sciolti. Poi ci mettono
lo zampino l’ineffabile Tjärne, arrivato per caso, che invade la ragazza con le
sue chiacchiere (anche “provandoci”) nel silenzio dell’altro, e il sonno abituale
per Libotz dopo il pasto perché tutto vada in malora…
“La mattina seguente Karin
ricevette una lettera e indietro il suo anello. La lettera non era aspra, anzi.
Libotz si caricava d'ogni colpa e deplorava di aver compromesso la sua
reputazione. Dichiarava inoltre di non essere l'uomo per lei, perché il suo
carattere grave, il suo duro lavoro che abbracciava tutte le miserie umane, lo
rendevano impossibile come individuo socievole. Infelice egli stesso, non era
capace insomma di spandere gioia o luce sull'esistenza altrui. E via dicendo.
Karin pianse, ma riconobbe che era giusto così e riprese il suo servizio da
Askanius, che Libotz però non frequentò più. Anche il commissario se ne
allontanò per un po' di tempo, poiché, nel momento stesso in cui Libotz aveva
mollato la presa, la preda aveva perso per lui ogni interesse. Aveva solo
voluto sapere fino a che punto fosse irresistibile e godere della sofferenza
altrui per un fugace pomeriggio domenicale. Libotz si chiuse in casa otto
giorni, si faceva portare da mangiare, si sciupava ma si occupava del suo
lavoro con regolarità e usuale perseveranza.
La sua posizione rispetto agli
abitanti della città restava la stessa di prima. Odiato da tutti coloro da cui
doveva riscuotere, sospettato, sprezzato, tribolava e adempiva ai suoi doveri
quasi meticolosamente. Se arrivavano una compagnia teatrale, il circo o qualche
concerto, lui ci andava, anche se non ne godeva:
«Be', chi può ci deve andare,
se no non ritornano e il teatro resta chiuso. È una vergogna per la città e l’unico
divertimento per i bambini è il circo. Si deve pure pensare agli altri».
Inoltre, faceva piccoli
prestiti, senza interessi, al popolino; sottoscriveva garanzie e pagava, eppure
come ringraziamento ricavava giusto la penosa nomea di essere un usuraio.
La sua incombenza più amara era tuttavia visitare il padre in ospedale. Sebbene
gli pagasse la seconda classe e sempre gli portasse tabacco, porto e altri
piccoli doni, era immancabilmente accolto da lagnanze.”
Il lungo
stralcio riportato è emblematico dell’approccio di Edvard nei confronti dei casi
della vita. Incline a incolpare se stesso di tutto quanto avverso gli capita, il
suo ostinato silenzio “contro!” gli altri non può che destinarlo a vittima sacrificale
sull’altare della presunzione, cattiveria e miopia di chi lo offende! Straordinaria
la vivacità della prosa nel descrivere atteggiamenti, difficili situazioni
relazionali, e punti di vista opposti su faccende non ben conosciute nel reale.
Su Libotz gli abitanti cumulano equivoci di carattere e di doti negative da lui
non possedute, ma solo uno specchio di quanto essi credono, in sequenze cui non
hanno assistito e che interpretano dall’assunto di una realtà falsata dalla visione
personale distorta.
La voce “capro espiatorio”
nasce nei riti ebraici per ottenere il perdono dei propri peccati nel giorno
dell’espiazione (Yom Kippur). Al sommo sacerdote si portavano due capri: uno, tirato
a sorte, veniva sacrificato al Signore; l’altro, “caricato” di tutti i peccati
degli officianti, veniva spedito nel deserto e abbandonato ad Azazel. Termine
quest’ultimo di significato tuttora indefinito, forse uno ‘spirito del deserto’
ovvero un ‘essere demoniaco’…
Dice Daniel
Pennac (Casablanca, 1944 – scrittore francese), che trent’anni della sua vita
li ha passati come insegnante nella scuola; “La prima cosa su cui dobbiamo
vegliare noi educatori è che nessun alunno sia eletto capro espiatorio degli
altri”. È questi l’Autore del celebre ciclo Malausséne, vari romanzi
centrati sullo stesso personaggio, che gli ha dato fama mondiale ed è divenuto
l’emblema del “capro espiatorio”. Dice ancora Pennac:
“Oggi il
capro espiatorio è colui che di fatto sta morendo annegato nel
Mediterraneo.
Quello è il capro espiatorio che viene sacrificato. Poi abbiamo anche altri
capri espiatori, per esempio il Presidente russo ha una serie di desideri e
quello principale è di ricostruire un impero. Per riuscirci ha bisogno di fare
propaganda e, per fare propaganda, occorre designare dei capri espiatori. I
capri espiatori che ha nominato sono i responsabili politici ucraini, che
contrabbanda di fronte all’opinione pubblica russa e a quella di tutto il
mondo, definendoli nazisti. Il capro espiatorio della propaganda russa oggi è
ovviamente uno dei responsabili ucraini, indipendentemente da chi siano. Questo
poi vale per l’intero mondo, potremmo continuare all’infinito.”
Un altro bell’esempio di capro
espiatorio, che però reagisce genialmente all’offesa estrema della società che
lo circonda, è il protagonista della novella “La patente” di Luigi
Pirandello (Agrigento, 1867 – 1936), Premio Nobel per la Letteratura nel ’34. Tutti
pensano che lui porti sfortuna, e così decide di prendere la patente di
iettatore e imporre una tassa agli scaramantici che vogliono evitare la
malasorte da lui indotta. Ennesima riprova che parla della diversità tra chi realmente
siamo e quello che gli altri pensano di noi.
Qui la “vergogna” mentale di Edvar è
tale che arriva persino a confidare, nel suo piccolo ambito, a persone indegne
moti segreti che qualunque altro individuo mai avrebbe partecipato... patendone
le conseguenze. Ed ecco come lo saluta il padre, al termine di una solita lunga
visita al cronicario dov’è ricoverato:
“«E ti credo, a te che volevi buttare
tuo fratello su una strada, e tuo padre fra i falliti».
Che cosa rispondere? Semplicemente
fremeva a quel rilievo di radicale cattiveria, ignobiltà, meschinità, e
accasciato scivolò oltre la porta. Ma doveva attraversate anche un corridoio e
dai due lati fioccarono su di lui come dardi ingiurie di giocatore, seduttore,
usuraio.”
L’esito umano non può essere che
frastornato:
“«Non posso io, misero, aver ragione
contro tutta la città che consiste di cittadini tanto buoni quanto me». Allora
si accusava di tutto: il minimo diventava enorme, rivangava quanto dimenticato
e riparato, e riteneva di essere il peggiore di tutti gli uomini…
August STRINDBERG: IL CAPRO ESPIATORIO
traduzione e introduzione di Franco Perrelli
CARBONIO Editore, 2023 – pp. 168 - € 15,00