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Approfondimenti
Storia della poesia napoletana
dalle origini ad oggi
di Franco Polichetti
Affrontare un discorso sulle origini di una qualunque disciplina è sempre un intraprendere un percorso pieno di incertezze e dubbi e ciò vale soprattutto nel campo letterario dove le origini si inerpicano, nascostamente, tra valli e colli soventemente lontani dai territori in cui essi diventano precise evidenze con chiare connotazioni.

Ciò è particolarmente vero per la poesia napoletana, la cui importanza in altri paesi avrebbe meritato un ben altro rigoglio di saggi e di investigazioni e un “amoroso fervore critico ed illustrativo”.

Così purtroppo non è stato per la nostra poesia dialettale che non ha avuto ancora fortuna critica adeguata nonostante che studiosi come Benedetto Croce, Francesco Flora, Luigi Russo, Renato Serra Emilio Cecchi ed altri autorevoli letterati, abbiano dimostrato che l’occuparsi del dialetto non è cosa disdicevole per il critico.

Questo mio lavoro non ha pretese di strenua esaustività anche se è stato elaborato nel corso di lunghi mesi durante i quali ho compulsato biblioteche e archivi vari constatando che di testi (letterarî e non) in napoletano se n’è conservata la memoria sin dal millecento circa.

Si tratta, nella maggior parte dei casi, di scritti in cui vi è un uso spontaneo del dialetto, in cui l’autore, pur non avendo cioè consapevolezza di usare un idioma diverso dalla lingua letteraria toscana, si sforza di rendere la trattazione in una lingua accessibile al popolo: la vernacolare.

Quella partenopea ha origini antichissime la cui genesi risale alla fine del primo millennio (1000-1100) dell’era cristiana, essa nasce come deformazione del latino.

Infatti i più antichi testi scritti in napoletano sono delle traduzioni in lingua volgare (volgarizzamenti) di poemetti in latino medioevale cioè in una lingua comune, in una koinè (dal greco- lingua dai caratteri comuni e uniformi), in cui, pur rimanendo un sostrato latino (nel meridione dell’Italia peninsulare si continuò a parlare latino durante tutto il medioevo), entrano copiosi termini toscani, innestati in una evidente matrice di lingua napoletana che dimostra la volontà degli autori di esprimersi in tale lingua, perché i volgarizzamenti dei poemetti erano diretti al popolo, ignaro di toscano e di latino, e quindi dovevano essere resi in una parlata da essi compresa.

Anche se si tratta di frammenti essi sono sufficienti a testimoniare che quella lingua non si discostava gran che da quella dei nostri tempi, ed aveva ben evidenti infiltrazioni nelle prime testimonianze apparse in lingua volgare ovvero nell’ italiano delle origini.

Infatti, osservando le testimonianze riportate nelle famose carte campane ovvero “Placiti cassinesi” specie quella dell’anno 963, nel leggere “sao ka kella terra ecc.”, ci si accorge che il k è più che mai affine al nostro ch di allora e di oggi.

Ciò comportò in positivo un arricchimento del lessico napoletano e l’avviamento del vernacolo verso una koinè linguistica di diffusione totalmente meridionale.

Uno dei testi più antichi, che si fa risalire al 1280, è quello che riguarda i “Bagni di Puzoli et de Ischia” un volgarizzamento del poemetto latino di Pietro da Eboli, un poeta della cerchia di Federico II di Svevia, in trenta epigrammi (circa il 1197) “De Balneis Terrae Laboris”.

Presso a poco della stessa età è anche il volgarizzamento dei “Disticha de moribus” attribuito a Catenaccio dè Catenaccio con lo pseudonimo di Dioniso Catone.

Altri numerosi volgarizzamenti risalgono a questo periodo ma su di essi, per i limiti che mi sono posti in questa ricerca, evito di soffermarmi particolarmente, tuttavia non posso non accennare alla “Cronica de Parthenope” che è il titolo convenzionalmente attribuito a un'anonima opera storiografica volgare del trecento.

La si considera la prima storia vernacolare di Napoli, la cui narrazione spazia dall'antichità fino al 1343. Nel 1526 ne fu data un’edizione e proprio da questa cinquecentina (così si chiamano le pubblicazioni edite nei primi decenni del XVI secolo, che conservano alcune caratteristiche formali dell'incunabolo) traggo alcuni interessanti particolari come quello di essere una raccolta di memorie della tradizione popolare riferite a monumenti greci e latini oggi scomparsi, ai nomi di antiche contrade cittadine inseriti in racconti popolari, scritti non solo da modesti autori ma anche da autori classici, sacri e profani.

Concludendo questo discorso sulle origini non posso non ricordare la lettera che Giovanni Boccaccio scrisse nel 1339 a Francesco dei Bardi mentre si trovava a Napoli, con cui il fiorentino si dichiarava parigino e figlio di una de la Roche.

La lettera del Boccaccio è scritta per metà in volgare fiorentino e per metà in dialetto napoletano. Nella prima metà, con stile elevato, si rivolge al suo amico Franceschino dei Bardi, che si trova a Gaeta per gravosi impegni di affari, e lo esorta a prendersi qualche svago e gliene dà occasione continuando la lettera in napoletano.

In questa seconda parte informa l’amico che dal suo amore con una tal Machinti gli è nato un bambino, al quale in uno alla puerpera, tutti gli amici hanno fatto visita con una gran festa.

Continua parlando di sé stesso (chiamandosi alla napoletana Ja’ Boccaccio), come tutto dedito agli studi. Si firma col nome Jannetta de Parissi, cioè “Giannetto di Parigi”, secondo una diceria che lo voleva nato a Parigi.

L’Epistola napoletana rappresenta il primo testo di letteratura dialettale in prosa ed è tra i capisaldi di questo genere.

La lettura del testo originale, pur nelle varianti testuali proposteci dai diversi copisti, ci consente di vedere come la lingua in questo caso usata dal Boccaccio sia fondamentalmente napoletana, ma nel suo linguaggio, però, ci siano comunque numerosi i termini toscani (manducare, scaia, batteggiare, fiata, tosto...) e siciliani soprattutto (cuosa, biellu, buoglia, tia, biene, minchia), ma anche latini (scribere, addiscere) e francesi (allummata, se ti piace).

Chi avesse vaghezza di leggere il testo integrale della lettera di Boccaccio “tradota” in italiano la troverà in appendice al presente scritto.

Una maggiore diffusione e una più significativa affermazione ebbe la lingua napoletana dopo il 1442, quando, regnando a Napoli Alfonso I d’Aragona, questi dispose di adottare, come lingua madre ovvero lingua ufficiale, la lingua napoletana.

Banditi tutti gli altri idiomi, da quel momento le leggi i discorsi, i comunicati, le difese degli avvocati in tribunale, e tutto quanto aveva carattere ufficiale e promanasse dal Re venne redatto in quel linguaggio vernacolare adoperato fino allora solo dal popolo.

Ma proprio di questo periodo di tanto splendore e diffusione del dialetto napoletano scritto, sono a noi pervenute ben poche testimonianze.

Ed eccoci pervenuti all’epoca d’oro della letteratura napoletana, ne possiamo collocare l’atto di nascita verso la fine del 1500, gli autori, unanimemente accettati come suoi padri rispondono ai nomi di Giambattista Basile, Giulio Cesare Cortese, e Felipo Sgruttendio.

Tra le definizioni che i letterati, posteriori, enunciarono per questi tre autori delle origini, ne apparvero alcune come queste, che ancorchè esagerate, rivelano, tuttavia, che i nostri poeti non furono considerati astri meno luminosi di quelli nazionali: il Cortese fu definito il Dante napoletano, il Basile il Boccaccio, lo Sgruttendio il Petrarca.

Emblema supremo della civiltà artistica e del dramma umano di Napoli e della napoletanità è, senza alcun dubbio, la poesia: specchio dei sentimenti di un popolo, per quest’aspetto, unico ed ineguagliabile, in cui la nostalgia dei luoghi e le situazioni umane trovarono cantori ineffabili e frementi.

Nell’arco dei cinque secoli, tanti ne sono trascorsi dal 1500 ad oggi, la letteratura poetica napoletana è stata arricchita dalle opere di una numerosissima schiera di valenti e talora inimitabili autori. Impossibile quindi nello spazio di questo breve saggio trattarli singolarmente, di ciò mi dolgo immensamente, perché nella flora rigogliosissima del dialetto napoletano vi sono gemme di tale elevatura poetica, di tale robustezza di concetti e di così impeccabile fattura del verso, che possono gareggiare, senza tema, con i più quotati poeti nazionali; e non poterli sufficientemente presentare è, per me, una sofferta rinuncia.

Immagino sufficiente per chi ne volesse approfondire la conoscenza segnalare che per soddisfare questa eventuale vaghezza può consultare, fra innumerevoli testi: Bartolommeo Capasso, “Sulla poesia popolare in Napoli” in Archivio Stor. per le Province Napoletane 1883.
F. Galiani. “Del dialetto napoletano" a cura di F. Nicolini1923.
B. Croce: Curiosità Storiche, Ricciardi, Napoli, 1921 e-Nuove curiosità Storiche, Ricciardi, Napoli , !922,
ma soprattutto Ettore De Mura “Poeti Napoletani dal Seicento ad Oggi”. Marotta, 1977.

Di questa rigogliosa fioritura vernacolare, la raccolta del De Mura rappresenta una silloge preziosa di quanto più elevato è stato prodotto dalle origini sino ai tempi odierni, sia pure “a rapidi ed esaurienti tratti”.

Eccone una concisa e icastica rassegna: “Poesia sentimentale o giocosa, pittoresca o penosa, da quella del grande seicentista Giulio Cesare Cortese a quella del nostro immenso Salvatore Di Giacomo, dal misterioso Sgruttendio al napoletanissimo Ferdinando Russo, dal nostalgico Velardiniello al filosofeggiante Giovanni Capurro, dal gustoso Nicola Capasso al pensoso Rocco Galdieri, dal fantasioso Mineco Piccinni al pittoresco Roberto Murolo, dal dotto Lombardo al profondo Libero Bovio, dal prolifico don Giulio Genoino, al fascinoso Luca Pstiglione, dal rassegnato Quattromani al multiforme E. A. Mario, dal favoloso Perrucci al suggestico Nicolardi, dal sarcastico Barone Zezza al personalissimo R. Chiurazzi, dall’ingenuo Raffaele Sacco all’armonioso Pasquale Ruocco, dal mordace Marchese di Caccavone all’iridescente Mangione e infine a tutta una schiera di poeti, nessuno privo di senso artistico, di ottimo gusto, di schietta napoletanità e di talento”.

Ma l’arco della poesia napoletana non sarebbe completo se io omettessi di dedicare qualche specifica considerazione ai due astri, quasi coevi, che nella seconda metà dell’ottocento illuminarono, di luce nuova, il mondo della poesia napoletana e lo elevarono alla gloria dei posteri: mi riferisco a Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.

Trascendentale, poeta vernacolare ma anche poeta nazionale, lirico raffinato il Di Giacomo seppe dare una forza nuova, inusitata alla poesia napoletana sollevandola dalla gora stagnante della retorica e di una stereotipia gretta ed elementare, redendola universalmente famosa.

Fu narratore e poeta fecondo straordinariamente dotato di una sensibilità immaginifica musicale e visiva; produsse un rigoglioso sviluppo di radici e ramificazioni con una ricchezza di motivi e una schiera di multiforme personalità che lo precedono e seguono.

Tanto fu luminoso l’astro digiacomiano da coinvolgere nel suo splendore i Galdieri e i Bovio e poi il Capurro e Murolo fino a quei canzonieri che attraverso le strofe e i ritornelli delle celebri canzoni dettero ali di canto sublime ai motivi poetici.

Nomi a volte oscuri che meritano tuttavia di essere da noi e dalla critica, rivalutati perché anch’essi hanno contribuito e, talora, in misura maggiore di quanto crediamo, a edificare, nel tempo, l’immagine inimitabile di quella Napoli che noi tanto amiamo ed il cui culto vorremmo trasmettere alle nostre future generazioni.

Il Russo, viceversa fu attento osservatore di tutta la realtà che lo circondava; si compiaceva descrivere l’ambiente popolare con i suoi sentimenti e con la sua parlata e perciò fu amato e idolatrato dal popolo. Ma la sua forza, l’originalità della sua ispirazione, la profonda simpatia che tutta la sua personalità emanò in vita, ancora oggi continua ad aleggiare intorno al suo nome.
Fu avversato, in vita, da Benedetto Croce e da Di Giacomo ma fu stimato dal Carducci.

Appendice
Ecco il testo della lettera “tradota” in italiano:

Giannetto di Parigi a Francesco dei Bardi. Facciamoti dunque, caro fratello, sapere che il primo giorno di questo mese di dicembre, Machinta ha partorito e ha avuto un bel figlio maschio, che Dio lo protegga e gli dia lunga vita e anni felici. E, per quello che ci ha detto la levatrice, che lo ha deposto nella culla, somiglia tutto al padre...

Sappi che quando ha partorito Machinta, la comitiva dei suoi amici le ha mandato il più bel polpo che si sia mai visto, e lei se lo è mangiato tutto, che le possa venire la scabbia, scusami!, perché non ce ne ha mandato neppure un tantino.

E dopo alquanti giorni lo abbiamo fatto battezzare (il bambino, ovviamente) e lo ha portato in chiesa la levatrice, infagottato in un vestito di lana di Machinta, in quello di velluto rosso foderato di vaio: non so se ti ricordi a quale mi riferisco. E Giannetto Squarcione ha portato la torcia accesa stracolma di carlini... bianchi.

Gli hanno fatto da padrino Giannetto Corsario, Cola Scrignario, Tuccillo Parcietano, Franzillo Scezzaprevete, Sarrillo Sconzaioco, Martusciello Burcano e non so quanti del fior fiore di Napoli.

Facevano coppia con loro Mariella Cacciapullece, Catella Saccone, Zita Cubitusa, Rudetula di Portanova e tutte le zitelle della piazza nostra. Gli hanno imposto il nome di Antuoniello in onore di Sant’Antuono, che lo protegga.

Ah, se avessi visto quante belle di Nido, Capuana e altre piazze sono venute a visitare la puerpera, per certo ti saresti meravigliato... Più di cento credo che fossero, con le cuffie incannellate e con le braccia tutte ricoperte di perle e d’oro puro, benedetto quel Dio che le ha create! Come stavano bene!

In quanto a Machinta, sta bene e si compiace molto del figlio, per quanto stia ancora a letto, come si addice ad una puerpera. Abbiamo ancora da dirti qualcosa, se ti piace (cf. il francese: s’il vous plait).

Qui c’è l’abate Giovanni Boccaccio, come tu sai: notte e giorno non fa altro che scrivere. Gliel’ho detto più volte e spesso ho litigato con lui. Ma quello mi ride in faccia e mi dice: “Figlio mio, va’, spicciati! Vattene a giocare alla scuola con i giovanottini, perché io faccio questo per voler imparare”.

E quello, mi dice Giovanni Barrile, ne sa più del demonio e dello stesso Scaccinopole di Sorrento. Non so perché lui fa così... Certo qualcuno mi potrebbe dire: “Tu con tutto questo che c’entri?” Ora te lo dico. Tu sai che gli voglio bene come ad un padre. Non vorrei che gli capitasse qualcosa di spiacevole, perché ciò che spiace a lui dispiace anche a me.

Per favore, scrivigli e raccomandagli il nostro compare Pietro dallo Caneiano; possiamo fargli visita quando a lui piace. ...Noi ti abbiamo sposato alla nostra piazza. Qui c’è Zita Bernacchia, che spasima per te. E sta’ attento. Se lo consenti, vogliamo un poco fare il volgare con te. Benedetta la tua minchia, che ha penetrato Machinta e ci ha regalato questo bel figlio.

In Napoli, il giorno di sant’Aniello (1339). A Francesco de’ Bardi, il tuo Giannetto di Parigi de la Roch.
15/6/2018
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